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Il cinema di mostri di Marco Bellocchio.

Quando Marco Bellocchio esordiva con I Pugni in Tasca, nel 1965, il filone del cosiddetto gotico italiano era in pieno rigoglio anche se si avvicinava inesorabilmente alla sua fine, compiutasi con il definitivo avvento del giallo argentiano, meglio capace di rappresentare le inquietudini dell’epoca nella finzione del grande schermo.

Era un cinema popolato di orrori soprannaturali e di mostri, letteralmente: streghe vere e presunte marchiate a fuoco, doppi malvagi, vampiri e fantasmi, in una delle stagioni più caratteristiche del nostro cinema. Non che, in ogni caso, nel cinema dell’autore piacentino gli orrori mancassero, e i mostri nemmeno, a cominciare proprio dal protagonista pazzo ed epilettico della sua opera d’esordio. Ma era un cinema rivolto verso l’establishment e l’oggi (di allora), in cui gli idoli polemici erano la famiglia, il potere e le istituzioni, considerati indistintamente marci e repressivi, oggetto pertanto di una furia iconoclasta senza tentennamenti. Con Sangue del Mio Sangue, Bellocchio non deflette certo dal suo percorso – che ha avuto anche qualche “basso”, intendiamoci – però sembra concedersi il gusto di saldare ispirazioni eterogenee, dimostrando una volta ancora la presenza (e le presenze) del dissonante dentro il quotidiano, con una precisione che trova anche un insolito passo ilare. Se è agevole infatti rintracciare le ossessioni dell’autore in una storia come quella del primo episodio, che nella terribile vicenda della presunta strega torturata e murata viva rinnova le accuse sui metodi di “persuasione” della Chiesa della Controriforma (come nel magnifico Confortorio di Paolo Benvenuti), è nel segmento con Roberto Herlitzka che la libertà di registri del cinema di Bellocchio si dispiega completamente e lascia sulle prime lievemente spiazzati, con un conte-vampiro talmente sbiadito da essere fuori fuoco e fuori posto (di qui il suggerimento del Consiglio a ritirarsi in Riviera) in una realtà come il mondo di oggi (godibilissimo il dialogo dal dentista), nel quale il Male pare annidarsi altrove, magari in un quotidiano di faccendieri scalcinati e di grotteschi (pseudo)miliardari russi pronti a comprarsi qualsiasi pezzo di storia in nome del business (e per distaccarsi dalla lettera del fantastico gogoliano – l’ispirazione è, come hanno notato tutti, L’Ispettore Generale – non c’è nulla di meglio di un misurato sarcasmo).

Bellocchio non sarebbe comunque il regista che è, e Sangue del Mio Sangue sarebbe a mio parere assai meno interessante e riuscito di quello che è, se ci si fermasse al piano allegorico, sia pure giocoso e divertito nella parte contemporanea. Il colpo di coda finale mi sembra infatti da leggersi (diversamente da come lo ha in genere interpretato la critica e da come lo stesso regista lo ha presentato: in fondo “la sincerità è una cazzata”) come il chiastico accostamento tra una liberazione impossibile, che rimanda comunque troppo didascalicamente al celebratissimo finale di Buongiorno, notte, e il patetico decesso di un grosso papavero che è ormai ridotto all’osso (nella sottotrama in cui il conte si nasconde dalla moglie lasciandola priva di alimenti sta tutto il senso di un’egemonia ormai ridicola). Come a dire che la fedeltà a se stessi, la bellezza idealizzata (Benedetta esce dalla sua prigione più che mai avvenente e circonfusa di luce come una madonna) e l’amore non vissuto non portano alla salvezza (per sottrarsi all’irretimento in cui è caduto il gemello, Don Federico si abbandona persino alla lussuria con le due premurose carampane interpretate da Alba Rohrwacher e Federica Fracassi); mentre il povero vampiro non rappresenta che la carcassa (s)vuota(ta) dal Potere ormai trasferitosi altrove, e magari diluitosi in una Bobbio (ma in realtà ovunque, visto che “Bobbio è il mondo” e tanto più che lo stesso Bellocchio parla di “vampirismo ambientale” nelle interviste) in cui pullulano ogni risma di personaggi equivoci e indecifrabili, talvolta pazzi e giullari, talvolta il contrario, una casta assennatissima, prudente, rassicurante. I mostri di oggi sono proprio dappertutto, sembra concludere con amara constatazione il regista, e non c’è nemmeno più bisogno di trame romanzesche e passioni distruttive per saggiarne l’inquietante aleggiare.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.