Le stanze dei sogni.
Un film di quasi tre ore girato per nove decimi all’interno di poche stanze inframmezzate da un disimpegno (nel quale la macchina da presa a tratti sembra persino un inciampo all’azione), risponde al bisogno di rappresentare le dinamiche sociali e famigliari della Romania contemporanea secondo la logica della sineddoche: e di farlo intervenendo il meno possibile, per realizzare un esperimento di distillazione del vissuto. In questo senso però, la densità di informazioni raccolte facendo ricorso a una pletora di piani sequenza rischia seriamente di deragliare in mediocre teatrino del (non tanto) assurdo quotidiano; e non certo per l’assonanza buñueliana di commensali che non arrivano mai a mettersi davvero a tavola quanto per la freddezza che lo spettatore avveduto sente dinanzi all’ennesima parata di grigiore morale. Un catalogo che comprende nevrosi, tradimenti, accuse e controaccuse in famiglia, fallimentari bilanci esistenziali, discussioni sul presente minacciato dal terrorismo (il periodo è quello dell’attentato a Charlie Hebdo) e sottoposto al complottismo globalizzato, per andare a volte a parare sul consueto, ingombrante, passato comunista finito nel 1989. Una strada insomma che il recente cinema romeno ha già percorso in modo convincente, a partire proprio dai precedenti lavori dello stesso Cristi Puiu (la durata fluviale è del resto un suo marchio di fabbrica: La morte del signor Lazarescu durava 153′ e Aurora sfondava il muro delle tre ore), e che sembra aver ormai offerto tutto quanto era possibile ricavare.
Il reale – ciò che vediamo davanti ai nostri occhi nel film – pare tuttavia resistente. Invece di montare in una coralità da grande freddo, il discorso alla base del film si arena in un’opacità che non sembra conseguita in modo intenzionale e che coinvolge anche le modalità della rappresentazione. La dittatura del piano sequenza si riduce pian piano a una predominanza che tradisce l’incompiutezza. Si presti attenzione all’ultima scena, che mi pare rivelatrice: finalmente riuniti a tavola, i protagonisti sono ancora impegnati a dibattere e persino a scherzare, inseguiti da una macchina da presa che è ormai “esausta”, che si sposta in modo brusco e persino violento dall’uno all’altro e da un punto all’altro della stanza, rimanendo sempre in dialogo con l’esterno di questa (il peso del fuoricampo è una costante del film). Nell’epilogo, cioè, si scorge materia per un nuovo inizio e l’appartamento in cui va in scena la vita quotidiana della famiglia e della classe media si trasforma da laboratorio in stanza dei sogni infranti: che sono quelli di chi col cinema vorrebbe catturare il senso di un popolo e di un momento storico, ma alla fine capisce che non può. L’impasse non è in questo caso una strategia di spaesamento dello spettatore, ma una presa di coscienza di come sia problematico, per quanto necessario, insistere nel pedinamento di una realtà troppo variegata e informe (1). Cosa che di tanto in tanto appariva già dall’esclusione della camera dalle stanze della casa, a volte con la perentorietà di una porta chiusa, a volte semplicemente non permettendo una vista completa degli ambienti. Puiu arriva quindi nel finale a fermarsi insoddisfatto, confessando uno scacco, proprio come accade ai suoi personaggi, e in questo sta – mi pare di poter dire – l’onestà dell’opera, che riesce a non ergersi al di sopra di quanto si vede. Se poi Sieranevada sarà per Puiu il punto di non ritorno di un modo di raccontare il suo paese è difficile dirlo, ma di certo è il caso che il regista si ponga alcuni interrogativi di metodo.
(1) La colonna sonora del film, che svaria senza soluzione di continuità dalla musica classica agli Ultravox a Loretta Goggi, mi pare un’eccellente conferma di questo assunto.
Sign In