Il cult nichilista di Kitano.
Presentata al 43° Festival di Cannes del 1993, nella sezione Un Certain Regard, la quarta opera di Takeshi Kitano, ancora una volta regista e interprete, ha proseguito la riflessione nichilista del maestro giapponese sulla violenza e sul dolore, dopo l’impressionante debutto di Violent Cop e i controversi Boiling Point e Il Silenzio sul Mare.
Murakawa, uno Yakuza di Tokyo, viene inviato a Okinawa dal suo boss per un ultimo problema da risolvere prima di ritirarsi definitivamente. Una volta sul posto, quella che era stata presentata come una truce guerra da interrompere ad ogni costo si ridimensiona di fronte al suo sguardo cinico: nessuna faida per il potere ad Okinawa, solo alcuni screzi tra clan. Murakawa comprende di essere stato ingannato dalla sua stessa organizzazione e cerca rifugio insieme a pochi uomini non propriamente fidati.
Diventato un cult in pochi anni, nonostante il mediocre successo in sala, Sonatine sceglie come baricentro narrativo un uomo stanco e cinico, nella sua piena maturità intellettuale e criminale. Lo sfondo, però, si distacca nettamente dall’epopea gangster: le note del maestro Joe Hisashi – già all’epoca fedele collaboratore dello Studio Ghibli – accompagnano l’immobilismo di una trama che si sviluppa placidamente su una calda spiaggia. I sopravvissuti al primo attentato trovano riparo in una casa in riva al mare, ingannando il presentimento di morte che li accompagna e permettendo allo spettatore di osservare da vicino, con piglio onirico-documentaristico, i rituali che scandiscono le loro giornate.
In un esilio volontario, Murakawa e i suoi gregari si riuniscono dunque in un ultimo inno alla vita. Al gruppo appartengono anche due giovani ragazzi, aspiranti Yakuza con scarsa vocazione, e una prostituta salvata per caso da Murakawa stesso. Introdotte come semplici macchiette, le figure dei comprimari concorrono presto nel delineare con tratti più decisi il dramma che aleggia su di loro.
Così, senza giravolte o contorsioni, la sceneggiatura di Sonatine si esaurisce nei giochi in spiaggia, nei teatrini notturni, negli scherzi di cattivo gusto, nelle liti per utilizzare la doccia e in un seno nudo sotto la pioggia. Poi, l’ineluttabile bussa alla porta della baracca. E la vendetta di Murakawa ha inizio.
Takeshi Kitano incastra alla perfezione il suo spiccato umorismo orientale all’interno di un film cupo e profondamente nichilista. Lo sguardo paretico di Beat Takeshi passa dalla regia all’interpretazione senza discontinuità: in più occasioni si riconosce in Murakawa il cipiglio di uno spettatore in sala, che si abbandona a uno scherzo o a un sorriso solo dopo essersi ripetuto che quel dramma non è il suo.
Scrutando il mondo che lo circonda, in definitiva, il gangster non lascia mai spazio ai parossismi o alle esplosioni, assistendo indolente ai drammi che lo intercettano. Ma è proprio in quella spiaggia deserta e assolata che la maschera di cera sul volto di Murakawa inizia a disfarsi regalandogli una tardiva età dell’innocenza, prima dell’ultimo sacrificio socratico che non ammette catarsi.
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