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“Una favola da una tragedia vera”.

Presentato in Concorso all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Spencer arriva finalmente nei nostri cinema dopo la decisione di farne slittare in avanti l’uscita, prevista come per Licorice Pizza per febbraio, per paura della risalita dei contagi d’inizio anno che ha tenuto lontano dalle sale buona parte di quel pubblico potenziale che esercenti e distributori attendono (vanamente?) a gloria.

Il nono lungometraggio di Pablo Larraín, forte di una sceneggiatura affidata all’esperta e abile penna di Steven Knight, ha una messa in scena rigorosa, raffinata e inappuntabile che guarda e omaggia le perfette geometrie e le maniacali simmetrie kubrickiane. Dopo Neruda e Jackie, Spencer è l’ennesimo finto biopic messo a punto dall’autore cileno, nonché il terzo – straordinario – ritratto di donna dopo quelli dell’ex first lady e vedova Kennedy (Jackie appunto) e della giovane ballerina Ema, protagonista del suo penultimo film.

L’ultima fatica del talentuoso cineasta cileno è destinata, probabilmente, a deludere chi si aspetta il classico film biografico/gossipparo incentrato sulla principessa Diana, a cui un autore in continua trasformazione come Larraín non sarebbe certo stato interessato. Spencer è racchiuso nell’arco di soli tre giorni, durante le festività natalizie del 1991 trascorse dalla famiglia reale nell’imponente Sandringham House, la residenza di campagna della casa reale inglese situata nella contea di Norfolk. Fin dal magistrale incipit, che ci accompagna e introduce assieme ai protagonisti a Sandringham House sulle note composte da un gigantesco Jonny Greenwood, che intreccia in modo efficace e originale orchestrazioni classiche e free jazz, Diana appare come un corpo estraneo alla famiglia reale, l’ultima a giungere sul luogo, da sola, a bordo della sua auto. Una donna costretta a sottostare ai doveri, alle regole e ai rigidi protocolli imposti dalla monarchia inglese. Diana è spaesata, in preda all’ansia e all’angoscia, insofferente agli abiti che è costretta a indossare, alla parte che le è stata assegnata e che dovrebbe recitare suo malgrado. Diana è sola, vittima di un matrimonio alla deriva, abbandonata a se stessa da Carlo che la tradisce e le regala la stessa collana di perle che ha preso per la sua amante, Camilla Parker-Bowles. Diana è ostaggio delle etichette e della tradizione, si ritrova assediata, spiata e accerchiata all’interno dell’enorme magione che ospita la famiglia reale al gran completo in occasione delle festività natalizie. Il suo disagio e malessere psicofisico, palesati e acuiti dai disturbi alimentari, sono alleviati unicamente dal tenero rapporto coi figli. Una madre fragile e dolente che si rifugia in camera di William e Harry appena può, per giocare con loro e cercare la pace e la serenità che le sono precluse. Diana è un’estranea in casa d’altri, una presenza fastidiosa e ingombrante, indesiderata ma necessaria alla famiglia reale. La principessa si sente come un insetto osservato al microscopio, vorrebbe scomparire, fuggire via lontano, ma si ritrova intrappolata nell’Overlook Hotel, un luogo senza futuro infestato da spettri e fantasmi (quello di Anna Bolena, la seconda moglie di Enrico VIII mandata al patibolo per adulterio, con cui Diana dialoga e s’identifica) in cui il presente e il passato sono la stessa identica cosa. Sola contro tutti, tenuta costantemente sotto osservazione dal maggiore Alistar Gregory (al solito eccezionale Timothy Spall) Lady D, interpretata da una magnifica Kristen Stewart (che meriterebbe di vincere quell’unico premio Oscar a cui il film è candidato) bravissima nel restituire la grazia e la fragilità insite nel suo personaggio e perfettamente a suo agio con l’accento britannico, cerca l’affetto e la complicità della guardarobiera Maggie (Sally Hawkins) e dello chef capo brigata Darren (Sean Harris), gli unici in grado di capirla e d’ascoltarla. Incapace d’indossare la maschera che le si chiede di portare e di scindere la parte pubblica da quella privata per difendersi e schermarsi dai media (devono esserci due te le dice un freddo e distante principe Carlo), nella notte brumosa della campagna inglese Diana prova a fuggire dall’austera e severa prigione dorata che non la lascia respirare, cercando rifugio nella casa di famiglia degli Spencer ormai in stato di abbandono (era nata e cresciuta proprio a Sandringham, vicinissima alla tenuta reale), alla ricerca di se stessa e delle sue origini.

La chiusa di Spencer vorrebbe essere spensierata e liberatoria, un gesto d’amore e di compassione da parte del regista cileno nei confronti della sua protagonista, con Diana finalmente serena e leggera pronta a lasciare Sandringham House assieme ai due figli, correndo via veloce in auto sulle note di All I need is a miracle. Purtroppo, come ben sappiamo, il miracolo non si è compiuto, la favola della principessa triste non ha avuto lieto fine. Pablo Larraín, autore vitale e irrequieto come la protagonista del suo ultimo lavoro, prosegue in maniera coerente e rigorosa il suo percorso, sempre pronto ad affrontare nuove sfide cinematografiche, come dimostrano Tony Manero, Post Mortem e No, i titoli che compongono la sua personale trilogia sulla dittatura di Pinochet e Neruda, Jackie e Spencer, i suoi biopic atipici e non convenzionali tesi a disattendere le aspettative del pubblico, refrattari ai cliché e alle convenzioni di un genere sempre a rischio d’incorrere in una stucchevole e deleteria agiografia.

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Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.