E polvere di stelle sia!
Da qualche anno a questa parte, grazie soprattutto al piccolo schermo, sono arrivati a noi una pletora di prodotti che facevano dell’alchimia tra la spietatezza medievale e prerinascimentale e gli intrighi di corte, spesso tradotti in corpi brucianti di passione quasi pornografica, l’ingrediente principale della loro personale disquisizione sul potere. Parliamo di serie come I Borgia, I Tudor, il nostrano e recentissimo I Medici e, come dimenticarlo, il clamoroso successo con contaminazione fantasy de Il trono di spade. Tutti lavori il cui comune denominatore, oltre alla complessità della scrittura televisiva da terzo millennio, era ed è ancora la solennità immutabile e intoccabile dell’attaccamento al reale, anche quando ci sono draghi volanti.
Parto da qui per scrivere di Stardust, che non condivide, questo è certo, il medium dei prodotti citati sopra, bensì le loro ispirazioni primordiali: le donne, i cavallier, l’arme, gli amori e anche gli intenti. Ma il risultato è sorprendentemente diverso. Stardust mira forse a ricreare una mappa di pulsioni, di cause dell’umana follia da delirio di onnipotenza come le serie di cui si parlava, ma poi quello che ci si ritrova tra le mani è un efficacissimo, puro e semplice elogio dell’immaginazione, la cui giusta dose di complessità risiede solo nell’intreccio, che poggia in maniera solida sulla fiaba, struttura di racconto lineare e archetipico che ancora oggi fa da metronomo agli studiosi di narratologia di mezzo mondo.
Tratto dalla “fiaba per adulti” scritta da Neil Gaiman e illustrata da Charles Vess e diretto nel 2007 da Matthew Vaughn prima dei suoi successi con i supereroi tradizionali e non, Stardust racconta di come il goffo Tristan, cercando di portare una stella cadente divenuta la splendida Yvaine (Claire Danes) alla sua superficiale amata Victoria (Sienna Miller), si ritrova invischiato nella brutale successione del regno di Stormhold e, come non bastasse, viene inseguito da una strega (una bellissima Michelle Pfeiffer) che aspira all’eterna giovinezza.
Il fantastico in Stardust diviene piacevole e godibile. Il mondo meraviglioso, se vogliamo, è sì specchio del reale, ma è più divertente. Il più classico degli espedienti, un muro invalicabile quale simbolo di una società ingessata che non sa più che cosa sia il coraggio, divide i due mondi. In quello magico di Stormhold quel che conta è il potere, più importante della stessa famiglia, visto il modo in cui i figli del re morente (Peter O’Toole) cercano di accaparrarselo. Anche le apparenze hanno il loro peso: l’unica cosa che importi davvero alla strega Lamia è il ritorno alla giovinezza, così come Victoria è più interessata a un buon partito piuttosto che all’amore di Tristan. Come dire che la storia si ripete e ciò che sembra solo il frutto di un mondo barbaro e medievale non è poi così distante da quello che in Stardust sarebbe il mondo reale e più evoluto: Tristan sembra appartenere a un contesto rurale vittoriano in Inghilterra, al periodo in cui una classe media di gentiluomini si costruiva un malfermo piedistallo di rispettabilità per ergersi sopra le storture dell’utilitarismo della seconda rivoluzione industriale.
In Stardust tutto questo è sotto gli occhi, mentre il profluvio abbacinante di immagini che accompagnano l’epica da fiaba cavalleresca scorre indisturbato e i complessi equilibri su cui si regge la realtà e il mondo incantato non sono mai sembrati così cristallini. Merito anche dello humour a profusione. Acido, sopra le righe ma mai ingombrante. Si fa fatica a trovare una sola scelta che non sia azzeccata: il coro di fantasmi, che altro che non sono i fratelli morti ammazzati nel vano tentativo della conquista del trono, il sangue blu che sgorga dalla gola tagliata di uno di loro, il mercante interpretato da Ricky Gervais, il duello finale in cui Mark Strong balla e combatte come un manichino. Il film ha anche il merito di aver regalato un’apparizione ben sopra la decenza all’ormai compianto Robert De Niro: ormai sacrificatosi sull’altare del ridicolo involontario in cambio di una presenza fissa a Hollywood, qui il suo volto deformato dall’inconfondibile smorfia è più che funzionale. Interpreta Capitan Shakespeare, anche lui schiavo delle apparenze, essere un guerriero sanguinario quando vorrebbe solamente ballare e sfogarsi en travesti, come avviene in una sequenza a dir poco trascinante.
Un gioiello che invita al coraggio, a superare le prove e le paure presenti in ogni fiaba che si rispetti. Certo, i personaggi sono forse troppi (pare che ne siano stati addirittura aggiunti al già denso romanzo di Gaiman), a volte sono irrisolti e di sicuro gli spettatori più giovani possono far fatica con la trama, almeno inizialmente, ma risveglia in noi un desiderio di avventura e di amore. Perché Stardust è anche questo, una grande storia d’amore mai melensa. E la semplicità è tutto, come quella di una cosa tanto pura, eterea come la polvere di stelle del titolo, la stessa in cui si trasformerebbe Yvaine se solo mettesse piede nel reale (e come potrebbe essere altrimenti: una stella non è degna del marciume terrestre), inarrivabile e allo stesso modo appagante come il tanto sospirato e direi guadagnato “e vissero felici e contenti” finale.
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