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STEVE JOBS

STEVE JOBS

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O della (non) binaria autorialità.

Avrei potuto scrivere parte di questo pezzo ancor prima di vedere il film. Non l’ho fatto; ho voluto tuttavia tentare l’esperimento di scindere in due la recensione: un mostro bicefalo. Il motivo? Ne sentivo il bisogno.
Al contrario del povero Steve Wozniak (Seth Rogen), cofondatore di Apple, il quale non si capacita di come a una figura senza competenze tecniche come quella di Steve Jobs (Michael Fassbender) venga attribuito l’epiteto di genio almeno una decina di volte al giorno, io non devo fare molti sforzi quando si parla in questi termini di Aaron Sorkin: eppure a premermi era il motivo di tutto questo.
Senza scomodare un caposaldo della critica cinematografica come la politica degli autori, soggetta a inevitabili riforme a distanza di decenni dalla sua formulazione, e conscio di non portare chissà quale sconvolgimento tellurico nella critica – come potrei? e non ne ho nemmeno l’intenzione – mi è bastato constatare che, dato l’hype alle stelle di parte della critica, una prima e plausibile esegesi del film era già cominciata quando del film si parlava solo a livello produttivo, allo stato embrionale. Un vecchio motto dello strutturalismo, cioè che il testo basta a se stesso per poterne trarre un’analisi esaustiva, non funzionava più. In special modo se il “testo” in questione – si parla pur sempre di finzione – cerca di incasellare il fondatore di Apple, che ha nel bene e nel male cambiato le coordinate del vivere contemporaneo, e vede a bordo il duo Sorkin-Fincher, già autori di The Social Network, forse il film gemello di quest’ultimo. In particolare il primo, nato a teatro e consacratosi in televisione prima della messe di consensi al cinema, ha visto salire le sue quotazioni nel borsino autori, e Steve Jobs ne è la prova incontrovertibile. Complici le recensioni provenienti da oltre oceano e da vari festival, non ho potuto fare a meno di notare un progressivo spostamento della critica verso un sostanziale a priori, dal quale nasce anche parte dell’autorialità di Sorkin. Alzi la mano chi non ha storto il naso, per non dire di peggio, quando il posto di Fincher è stato preso dal più commerciale Danny Boyle (il quale mi sembra sempre più delegittimato: ho citato il suo nome per terzo, eppure questo rimane un film di Danny Boyle. Giusto?). Non sta a me valutare in positivo o in negativo l’evidente spostamento critico, dico solo che si rischia di saltare sul carro del vincitore, Sorkin in questo caso, soprattutto se le cose vanno meno bene del previsto; tanto poi la colpa sarà di Boyle se il film non sarà bello come se ci fosse stato Fincher. Così facendo il dato oggettivo (per quanto sia possibile esserlo) a posteriori vacilla, mentre noto che la critica si concentra sempre più sul costruire una plausibile alternativa che esula dal testo (pochi giorni fa, su un’autorevole rivista, ho letto la recensione del film di un autore affermato: il suo nome compariva per terzo, perfino dopo l’inventore di un videogioco che a parer mio poco c’entrava con l’opera, la quale veniva valutata per quello che a priori era lecito aspettarsi invece che analizzare le scelte tangibili e immutabili di chi quell’opera, bella o brutta, l’ha portata a compimento). Non discuto quindi se Sorkin sia un autore o meno – per me lo è – ma un film, o meglio un testo filmico dalle significative ramificazioni produttive come Steve Jobs, del quale parlerò in maniera più canonica sotto, mi è parso un buon viatico per parlare di questo cambio di rotta. Non era doveroso e non l’ho fatto per difendere “associazioni di categoria”. Torno a ripetere, la cosa mi premeva e sottolineando l’intento di non annullare il mio pensiero (e solo mio) dietro impersonalità respingenti, concludo qui questo pistolotto.

 
Suddenly I turned around and she was standin’ there
With silver bracelets on her wrists and flowers in her hair
She walked up to me so gracefully and took my crown of thorns
“Come in,” she said, “I’ll give you shelter from the storm”

Bob Dylan

La citazione viene dal pezzo di Dylan (mito per Jobs, il quale lo citava spesso) messo in coda al film. Chi viene a togliere letteralmente la corona di spine che tormenta uno degli uomini più ricchi e forse invidiati del secolo è sua figlia Lisa, in un finale che sembra una decisa sterzata rispetto a tutto ciò che è venuto prima: la messa in scena di tre momenti topici della carriera di Jobs (tre presentazioni di altrettanti personal computer) che forniscono a Sorkin e a Boyle la scusa per dare libero sfogo all’iperscrittura del primo, ma forse imprigionano il secondo. Steve Jobs infatti, anche guardandolo da differenti angolazioni, sembra sempre di più un mostro a due teste (come questa recensione). Al contrario di quel che accadeva in The Social Network (se parliamo di un autore in quanto creatore di mondi, è inevitabile citare i suoi altri lavori, che sono impronta di una visione più grande dell’autore stesso, e la versione benigna dell’anatema di Wozniack contro Jobs: i suoi prodotti sono migliori di lui) in cui si aveva la sensazione di “guardare” i dialoghi di Sorkin in mezzo a quel bombardamento di immagini e suoni, in Steve Jobs sceneggiatura e regia non sembrano rispondere a un sistema binario perfetto, forse paradigmatico del carattere di Jobs, visionario e spietato.
La figura del demiurgo Apple è ingombrante, dai mille volti, geniale e diabolica, e perciò il microcosmo che ne viene fuori è complesso e stratificato, proprio come i dialoghi ubriacanti serviti allo spettatore. Mentre la regia al contrario pare più volte indecisa: ricercare l’inquadratura visionaria? quella pulita? oppure lasciarsi guidare dalla scrittura assistendola umilmente? C’è un po’ di tutto, col risultato di appiattire qualcosa di per sé audace: il retroterra umano, nella sua accezione più ampia, del retroscena produttivo di un (presunto) cambio epocale ripetuto in tre momenti di una sinfonia cinematografica. I primi due come tesi e antitesi riuniti aristotelicamente in un terzo di sintesi, che altro non è che la moral issue sorkiniana, mutuata dal suo paradigma televisivo. Anch’essa però, dopo due ore di dialoghi obnubilanti, suona un po’ fuorviante, per non dire furbetta quando ammicca allo spettatore meno colto che non può non saltare sulla sedia per come pare sia nato l’iPod, risolvendo l’equazione sulla personalità di Jobs: stronzo, geniale, ma anche indispensabilmente unico (vedere l’ultimissima inquadratura).
Purtroppo, e non è colpa (solo) di Boyle, che anzi tenta di far respirare il film nei momenti di stacco tra le tre parti, quelli paradossalmente più visivi, tra immagini di repertorio, scritte sovraimpresse e sottotitoli (almeno per lo spettatore di casa nostra), se il film suona meno necessario di quello che ci si sarebbe augurato. La figura di Jobs è indubbiamente affascinante, ma è ormai consegnata ad un mito ultraterreno fatto di colori argentei e mele mordicchiate che parla da sé, al contrario della figura geniale, tuttavia fragile e meno annichilente del Mark Zuckerberg “vestito” di blu e grigio, e per questo non ancora larger than life. Mi rendo conto che il paragone può fuorviare, ma sono gli stessi “autori” ad averlo richiamato: echi di The Social Network si avvertono anche nel muro di suoni della colonna sonora, che poi lascia spazio, senza apparente motivo, a una musica più convenzionale.
Al netto di innegabili picchi, Sorkin riesce sempre ad alzare l’asticella della scrittura cinematografica con alcune battute fotoniche, e le interpretazioni tutte meritano la miriade di riconoscimenti e nomination tributate loro: anche quando si ammirano allo specchio una volta di troppo, non si riesce a scrollarsi di dosso la sensazione che l’essenza del film duri l’istante di vita di una bolla di compiacimento prima dello scoppio. Un cinema da camera che parte dal più intimo per costruire il mito (per un momento, c’è anche il “biblico” garage in cui tutto sembra aver avuto origine), non riuscendo tuttavia a riverberarsi nel mondo reale, cosa che Steve Jobs, che ci piaccia oppure no, ha impegnato tutta una vita per realizzare.

voto_3

Matteo Catalani
Il cinema l’ha sempre accompagnato (ricorda ancora i pomeriggi passati davanti ai DVD dello zio in compagnia di Terrence Malick e Michael Mann, per poi scoprire come tenere la penna in mano grazie a Glengarry Glen Ross e ai film di Wilder) dirottandolo verso un’(in)felice carriera umanistica a discapito di un futuro scientifico già per lui preconfezionato. Ama lo storytelling in tutte le sue forme, che cerca di far sue con abnorme fatica. In attesa di svegliarsi un giorno avendo già nel cassetto un esordio alla Zadie Smith, o di venir selezionato come point guard titolare dai Portland Trail Blazers, trascorre i suoi indolenti pomeriggi guardando film e tentando di mettere ordine nei suoi pensieri (e nella sua vita). Con “Il Bel Cinema” è alla sua prima esperienza in un sito specializzato.