Alla ricerca delle emozioni estreme.
Era il 1995 quando Strange Days si affacciò nelle sale statunitensi per poi approdare qui da noi nei primi mesi del 1996. Un thriller metropolitano notturno e ansiogeno ambientato in un prossimo futuro, ovvero negli ultimi due giorni che precedono l’arrivo del nuovo millennio. In una Los Angeles messa a ferro e fuoco da violenze e saccheggi di ogni tipo si aggira Lenny Nero, un ex poliziotto che passa le sue giornate a smerciare clip per filo-viaggiare tramite lo SQUID, una tecnologia considerata illegale messa a punto dal Governo americano per sostituire le microspie e che impazza al mercato nero dove ha soppiantato le normali droghe. Tramite un dispositivo digitale si può rivivere in prima persona ogni tipo d’esperienza (comprese le più estreme, fino alla morte, conosciute nell’ambiente come black jack) vissuta da altri e registrata su apposite clip. La routine di Lenny viene spazzata via quando riceve un misterioso black jack contenente la brutale uccisione di Iris, una giovane prostituta amica della sua ex fidanzata Faith che si era rivolta a lui poco prima di morire. Lenny si ritrova così al centro di una vicenda oscura e intricata dove per sua fortuna può contare sull’aiuto di Mace, un’amica esperta in tecniche di combattimento che è da sempre innamorata di lui.
Il film, girato magnificamente da Kathryn Bigelow nonché scritto, sceneggiato e prodotto dall’ex marito James Cameron, fa leva su paure e paranoie innescate dall’approssimarsi del nuovo millennio e sulle tensioni e i tumulti razziali, scaturiti all’epoca dal pestaggio di Rodney King da parte di alcuni poliziotti ma ancora – come sappiamo – tristemente attuali a causa della violenza indiscriminata delle forze dell’ordine nei confronti della popolazione afroamericana. A distanza di due decadi e nonostante gli ultimi otto anni di Obama alla Casa Bianca (il primo presidente afroamericano nella storia degli Stati Uniti), poco o nulla è cambiato nelle metropoli americane, tuttora insanguinate dall’odio e dalla violenza razziale. La messa in scena della Bigelow, la prima e finora unica donna ad aver vinto l’Oscar per la miglior regia (nel 2010 per The Hurt Locker), è a dir poco strepitosa nel restituirci una Los Angeles cupa e violenta, dai toni quasi apocalittici. La lunga, isterica e adrenalinica soggettiva iniziale ci prepara al meglio a quanto ci aspetta nelle due, abbondanti, ore a seguire. Per realizzare le numerose soggettive volte a riprodurre i filmati registrati con la nuova tecnologia, la Bigelow e il suo staff tecnico si sono dovuti ingegnare non poco. Una volta constatato che nessuna cinepresa in commercio, compresa la steadicam, era in grado di riprodurre l’estrema mobilità dell’occhio umano, è stato necessario inventarne una ad hoc. C’è voluto circa un anno per realizzare e mettere a punto una cinepresa piccola (da tenere nel palmo della mano) e leggera (3,5 kg) in 35 mm con lenti intercambiabili e un sistema steadicam modificato per rendere i movimenti fluidi e naturali. Tra le varie e complicate soggettive ve n’è una quasi insostenibile, così disturbante e malata da rimanere ben impressa anche a distanza di molti anni. Si tratta della sequenza in cui il killer sadico e malato registra lo stupro e insieme l’uccisione tramite strangolamento della sua vittima, dopo averla bendata e collegata a sé tramite lo squid, per farle provare le sensazioni del suo carnefice. Dopo la morte l’assassino le apre gli occhi e fa un gesto con le mani come a volerla inquadrare e filmare per un’ultima volta. Lo spettatore si trova così costretto ad assistere, o meglio a prendere parte, all’osceno spettacolo della morte, scosso e travolto da un voyeurismo morboso alla stessa stregua dei fruitori delle clip che nel film ricorrono alla nuova tecnologia per immedesimarsi a livello emozionale-sensoriale con chi sta vivendo in prima persona una determinata situazione, in cerca di emozioni forti e spesso proibite, rubate dalla vita altrui, da godere in tutta tranquillità, senza correre rischi o pericoli.
Come si intuisce facilmente, c’è davvero tanta carne al fuoco in Strange Days, compresa un’anima romantica insita nei due splendidi protagonisti, ma la cineasta americana, ben più talentuosa e determinata della maggior parte dei colleghi maschi hollywoodiani, dimostra di avere tutto sotto controllo e di gestire ogni singolo aspetto con piglio sicuro e deciso. Se il quinto lungometraggio della Bigelow è ormai da considerarsi un titolo di culto radicato da lustri nell’immaginario collettivo, lo si deve anche ad un cast più che azzeccato, perfetto in ogni ruolo a partire dal protagonista, Ralph Fiennes, in una delle sue interpretazioni più memorabili e iconiche. Lo stesso, identico, discorso vale per Angela Bassett, brava e bella come non mai nei panni di Mace, il ruolo della vita, l’ennesima figura femminile forte, combattiva e determinata di cui è costellata la filmografia della Bigelow. Incredibile pensare alla carriera di Juliette Lewis che negli anni ’90 inanellò una serie di ruoli pazzeschi in pellicole importanti come Cape Fear, Kalifornia, Assassini Nati e Dal tramonto all’alba per poi perdersi un po’ per strada negli anni zero anche a causa dei suoi impegni nel mondo della musica in veste di cantante e chitarrista che, riallacciandosi a Strange Days, dove canta in un paio di brani scritti da PJ Harvey, danno vita ad un curioso cortocircuito. La ciliegina sulla torta di un cast che annovera Tom Sizemore e Michael Wincott è rappresentata dal poliziotto folle e brutale impersonato dal grande Vincent D’Onofrio, che sul finale omaggia apertamente l’indimenticabile Palla di lardo di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick.
Sorretto da uno score musicale efficace e suggestivo composto da Graeme Revell, che ben si amalgama alle canzoni di gruppi come Skunk Anansie, Strange Fruit e Deep Forest, Strange Days ha un crescendo inesorabile che non conosce cali di ritmo, sino ad arrivare al caotico e forsennato epilogo dove gli autori osano un lieto fine che individua nell’amore l’unico antidoto all’odio e alla violenza di una società al collasso e fuori controllo.
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