L’horror non muore mai.
Non c’è crisi delle sale e/o del cinema che tenga: l’horror sopravvive sempre e comunque. Sarà per la sua fortissima carica politica e sociologica, e la potenza nel catturare le suggestioni di quello che viviamo nell’esatto istante in cui avviene, filtrato dalla grana grossa della paura: e Talk to Me non fa eccezione, piccolo film che rientra in quella new wave cortocircuitata di opere minimali e oscure, dalla forza primigenia, che traggono ispirazione dalle pieghe del quotidiano per indagare a fondo nei coni d’ombra.
The Babadook, It Follows, Hereditary, Us, piccoli film che hanno in comune non solo la declinazione horror, ma anche la ferma volontà di restare analogici, sfuggendo al digitale.
Talk To Me resta in quei territori, in quegli ambiti: i due registi, Danny e Michael Philippou, frugano nel bric-a-brac sconnesso della mitologia del genere e strizzano l’occhio ad alcuni titoli anche invecchiati male (primo fra tutti, The Candyman) e poi vanno dritti per la loro strada, per raccontare una storia lacerante di sensi di colpa, di ossessioni, e di come è facile rimanere vittima del dolore restando invischiati in situazioni di dipendenza affettiva ed emotiva.
Certo, la distribuzione A24 fa il suo, continuando in una sorta di mission per veicolare le opere più controverse che nella loro “indipendenza” riescono ad essere più penetranti nelle coscienze e nella visione; ma anche il controverso divieto ai minori ha contribuito ad aumentare la curiosità su un film che forse sarebbe potuto ingiustamente sparire nell’indistinto maelstrom del mare magnum nelle sale.
Tutto parte comunque da un’indagine sociale che può sembrare già vista: i ragazzi e i social, il rapporto che si crea con le immagini riprodotte e con quella di sé stessi, la capacità di vivere dentro e fuori dal proprio corpo. Fino a che tutto questo confluisce poi in una storia macabra che non lesina sequenze spaventose (ancora di più perché non digitali) e che prende l’appartenenza comune di alcune cose per allargarne a dismisura i confini e restituire un’opera coraggiosa e forte, ma soprattutto adulta e crudele che prende di petto il tema del lutto.
E allora, anche grazie ad attori che tengono lo schermo come pochi (l’eccellente Sophie Wilde, ma anche Alexandra Jensen, Joe Bird, Miranda Otto, tutti al loro posto), tutto sembra concorrere per un film delicato ma profondamente consapevole: dalla fotografia studiatissima – e i colori virati sul ciano -, ai rimandi alla filmografia asiatica e ai suoi complementi filosofici – il rumore dell’acqua -, fino alla sceneggiatura che assimila la messa in scena del J-horror e ne rielabora intelligentemente gli elementi.
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