Gli abissi di Lydia.
L’esercizio critico è quanto di più potente ed evocativo possa esserci tra i generi letterari: perché può dire (ovviamente e per fortuna) tutto e il contrario di tutto, ma anche perché è capace di dire cose incredibilmente significanti insieme a frasi e circonlocuzioni particolarmente, assolutamente insignificanti. Per questo, molto spesso si sbaglia dicendo di un’opera che è “bella ma imperfetta”, che vuol dire tutto e niente.
Eppure in alcuni casi, è vero in maniera ineluttabile, come con Tár: che è un film che parte piano, con un progredire narrativo lento e a tratti farraginoso. Ma che però poi nel suo – lungo, lunghissimo – tragitto si risolleva e colpisce in faccia con un’onda d’urto emotiva fortissima, probabilmente impensabile e inaspettata, nel momento in cui rapisce lo spettatore con violenza e forza. E se il ritmo, voluto o meno con le sue spire sinusoidali, è merito della costruzione drammaturgica di Todd Field (non certo nuovo a storie fitte di quesiti morali e squilibri etici), la vischiosità della narrazione che afferra e non lascia più fino alla fine è opera di Cate Blanchett, mai troppo lodata, qui in un film che la celebra come interprete assoluta, pressoché costantemente in scena e al centro della trama, che ha una sorta di mimesi completa con il personaggio.
Come la Blanchett, Lydia Tár è un moloch emozionale, solido e iconico: ed entrambe lasciano dei minuscoli spazi vuoti, degli interstizi di senso sulla loro condotta, che rimangono intrappolati al di fuori dell’algidità caratteriale di Lydia/Cate e che vengono riempiti dal rumore bianco: sussurri, voci fuori campo, idee inespresse, sguardi sbiechi. Tutto ciò che esiste nella storia ma non fa rumore, tutto ciò che segue il personaggio principale ma non viene mai espresso: questa mole di piccoli particolari perturbanti e irrisolti sono un contorno necessario che si riversano copiosi nel film, rimanendo intellegibili ma insieme e allo stesso tempo contribuendo a restituire quell’atmosfera sospesa che rimane anche dopo la fine di Tár, che si appiccica sul fondo dell’anima, sul retro della visione, sul retro del palato dello spettatore che uscito dalla sala continua ad interrogarsi su quello che (non) ha visto per capire e inquadrare la protagonista dell’opera.
C’è tantissimo cinema nello sguardo di Field: Antonioni, Hitchcock, Haneke, Kubrick, Polanski. Perché ci sono temperature emotive che vengono da quelle latitudini, così come ci sono inquadrature che riecheggiano quegli scorci visuali. Eppure sono tutti registi, e risonanze autoriali, che non trovano una forma compiuta e precisa, ma restano sullo sfondo, restano impressioni mobili riconoscibili ma non definibili, così come le storie di Polanski, di Antonioni, di Kubrick e quindi di Field in Tár sono storie che si svolgono altrove e di cui in scena vediamo solo le ripercussioni. Un fuori campo estetico e perenne, un fuori fuoco di senso che si tramuta in suggestione thriller senza però che la trama ne risenta eccessivamente.
È per questo che, come si diceva all’inizio, Tár funziona quando lentamente si dispiega e non subito fin da quando inizia: è come se il registro narrativo sia ordinario e quindi banale, ma quello emotivo e artistico si innalzi subito quando si tratta di costruire atmosfere, personaggi, situazioni, sfumando sulla logica e approfondendo sul dubbio.
Un pedinamento emotivo, ha detto qualcuno: è proprio questo, un seguire costantemente Lydia/Cate mentre crea abissi esistenziali, apre porte su domande e non le richiude mai, soprattutto sembra riflettere sul – nostro – presente post pandemico in modi molto più stringenti e pertinenti di quanto si potesse pensare, precipitando la realtà post Covid in un loop perenne di incertezze e perenni ritorni. Il merito di Field è, alla fine, di aver creato una materia imperfetta e fascinosa pulsante praticamente dal nulla, con la sola forza di volontà, sua e della sua attrice. Giocando con il tempo e con la sua forma. Che dopo qualche secondo già non c’è più.
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