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Le traiettorie del tempo.

Sator Arepo Tenet Opera Rotas: sembra incredibile ma è vero, è stato un blockbuster attesissimo a portare sugli schermi di tutto il mondo, trepidanti post Covid, una lingua morta come il latino. E probabilmente soltanto la mente iperattiva e labirintica di un genio come Christopher Nolan poteva pensare di portare sullo schermo il quadrato magico del Sator, croce e delizia di appassionati di enigmi fin dai tempi della Roma di Cicerone: e vogliamo partire proprio da questo curioso quadrato visibile su un numero sorprendentemente vasto di reperti archeologici per provare a offrire una chiave di lettura a Tenet, il film crepuscolare ed indecifrabile di Nolan, un capolavoro ermetico e spettacolare. Perché le varie parole che lo compongono (Sator, Arepo, Tenet, Opera, Rotas: parole che in successione diventano non solo una frase palindroma, ma una composizione di lettere capaci, se disposte a quadrato appunto, di avere la stessa lettura dall’alto in basso e viceversa, da destra a sinistra e viceversa, tenendo ferma al centro Tenet) hanno un significato che è stato fonte di interpretazioni molto diverse, che hanno oltretutto portato a significati complessivi totalmente inconciliabili. Proprio come il film: perché l’undicesimo film dell’autore – di sicuro il più complesso – come si diceva sembra mettere in scena le traiettorie palindrome del Sator, sovvertendo la percezione temporale e sovrapponendo a questa soluzione già di per sé cervellotica la visione temporale del regista (il montaggio), restituendo alla fine un affresco misterioso quanto affascinante, inspiegabile quanto ammirevole.

Tenet è la storia di un Protagonista (senza nome), agente della CIA, che dopo aver partecipato ad un’operazione sotto copertura russa per rubare un oggetto non meglio identificato durante un assedio terroristico al teatro dell’opera di Kiev (una sequenza di apertura che riecheggia il sequestro di 850 civili da parte di un gruppo di militari ceceni, dal 23 al 26 ottobre 2002, al teatro Dubrovka di Mosca), viene reclutato da un mandante misterioso per un’altra missione, armato solo della parola Tenet: al centro, una tecnologia che consente agli oggetti di invertire la loro entropia e di spostarsi indietro nel tempo per mezzo dell’inversione del flusso temporale. La missione si ingarbuglia quando il Protagonista scopre che anche le persone possono essere investite da questa tecnologia, con effetti sorprendenti e pericolosissimi.

Non scopriamo oggi che per Nolan il Tempo e lo Spazio sono gli ambiti preferiti di ricerca: dal suo capolavoro The Prestige fino a Inception, passando per Dunkirk e Insomnia, il regista britannico è sempre stato ossessionato da una riflessione filosofica e quantistica sul Tempo e sul suo rapporto con l’Uomo, legato con le mutevoli esperienze soggettive della memoria e dell’identità personale. Un fiume in piena che si riversa in Tenet, opera che in qualche maniera sembra riprendere la struttura di Memento per sgretolarla e ricomporla anziché in frammenti scomposti in una forma unica che appare come un cubo impossibile alla Escher, un paradosso solido e fremente.

Il cinema narrativo contiene, più che qualsiasi altra forma d’arte, il Tempo: perché accetta implicitamente il Fiume temporale, il tempo come spazio lineare all’interno del quale confluiscono gli eventi in maniera causaeffettuale. Se poi il Tempo Esterno è la storia della durata delle vicende stesse all’interno del plot, il Tempo Interno è invece la durata dello sguardo di chi descrive quella realtà, ossia l’orologio assoluto che si concentra o si distrae dalla sequenzialità dei fatti narrati a suo piacimento. Deleuze sosteneva che l’immagine-movimento (il rapporto basilare tra spazio e tempo), riproducendo nella narrazione filmica il flusso temporale dell’esperienza, non è la forma più propria di apparizione del tempo. Essa infatti rende il tempo trasparente, invisibile e nascosto dietro la neutralizzazione del flusso narrativo. La figura più propria del tempo è piuttosto quella nella quale il tempo viene all’apparenza contrapponendosi al flusso, denaturalizzandosi.

Se allora Tarantino, pur con i suoi metodi, ha un approccio basico al Cinema, Nolan ne ha uno più teorico riuscendo nel contempo ad accontentare la cura dei personaggi e la fascinazione per il pubblico: proprio per questo, Nolan deve essere considerato colui che ha saputo tracciare le linee base del cinema postmoderno, perché la specificità del cinema del grande autore risiede, almeno in parte, in questa capacità di coniugare la materia trattata (più profonda di quello che può apparire ad una prima visione) ed una narrazione, fondata su influenze vastissime, incredibilmente attrattiva, che sfrutta il mezzo cinematografico spogliandolo del suo ruolo documentaristico e torna prepotentemente alle sue immaginifiche qualità primigenie.

Per questo, Tenet ancor prima che una storia è un’esperienza: anche per lo spettatore più scafato e pronto, che attende fin dai primi minuti la curva ad angolo dopo la quale Nolan getterà il guanto di sfida, e che la trova subito a metà film, nella sequenza al Freeport della stanza blu e rossa, una vera e propria sfida alle capacità intellettive di chi guarda, un esempio mirabile di messa in scena prepotente e grandiosa. Tenet è (anche) per questo un film epocale, che incatena le varie componenti dell’opera – dalla colonna sonora di Ludwig Goransson al ruolo degli attori, dalla composizione della scena all’incastro del montaggio – senza aver paura di portare “avanti” (se il vocabolo qui ha senso) due o più linee parallele di storie che si incrociano andando avanti e indietro contemporaneamente, proprio come le linee dei vocaboli nel quadrato del Sator.

Come dicevamo sopra, il cinema ha mostrato prima di tutto il Tempo con la sua traiettoria che procede naturalmente in avanti: se allora lo spettatore ha difficoltà a seguire il mutamento di entropia degli oggetti e delle persone, è solo perché abituato a principi narrativi di causa ed effetto. Principi narrativi cardine, per così dire, che da sempre Nolan punta a scardinare, innovando e se capita ridefinendo l’esperienza cinematografica di una totalità audiovisiva.

Torniamo allora all’inizio, per finire. Le parole iscritte nel quadrato del Sator, anagrammate, portano a Dio che manovra le opere le stelle dell’universo come l’uomo manovra le opere della terra. Avvicinandosi ancora di più a Tenet: due oggetti, film e iscrizione, che sembrano essere un’emozione per qualcosa che sa di magico e di misterioso, che si sa essere molto importante e che non si può spiegare.

“L’ignoranza ci salverà”, ripetono continuamente i personaggi. Grazie di avercelo confidato.

voto_5

Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.