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THE AGE OF SHADOWS

THE AGE OF SHADOWS

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Intrighi e azione per il nuovo blockbuster di Kim Jee-woon.

Dopo essere stato presentato fuori concorso a Venezia, The age of shadows ha inaugurato la quindicesima edizione del Korea Film Fest. Ad accompagnarlo in sala il regista Kim Jee-woon, uno degli autori di punta del cinema coreano contemporaneo, autore di titoli di culto come A bittersweet life e I saw the devil. Rientrato in patria dopo l’opaca e sfortunata parentesi americana, dove ha avuto l’occasione di dirigere Arnold Schwarzenegger nell’action The Last Stand, Kim si è lanciato in questo nuovo progetto, un kolossal ambientato alla fine degli anni Venti del secolo scorso durante l’occupazione giapponese della Corea.
Lee Jung-chool, ufficiale di polizia coreano al servizio delle forze imperiali giapponesi, è incaricato di identificare e neutralizzare il gruppo armato di ribelli che lotta per liberare il proprio paese dagli invasori. Una volta entrato in contatto con Kim Woo-Jin, uno dei leader del movimento, spera di riuscire a snidare e catturare Jung Chae-San, il capo della resistenza coreana, che a sua volta mira a servirsi di Lee Jung-chool facendo leva sui suoi sentimenti e sul suo spirito patriottico. Quest’ultimo si ritrova così al centro di un piano complicato che lo vede impegnato su più fronti, in un pericoloso doppio gioco dall’esito incerto.
Kim ritrova il piglio dei suoi titoli più ispirati, riappropriandosi di quell’estetica e di quella cifra stilistica che lo hanno reso noto a livello internazionale. Già a partire dal travolgente incipit, una frenetica caccia all’uomo con tanto di scontri, inseguimenti, acrobazie e voli sui tetti degni di un wuxia, ritroviamo con piacere le sue inquadrature ricercate ed elaborate e l’incredibile perizia tecnica che ne contraddistingue il modo di fare cinema. Nella lunga, tesa e magistrale sequenza del viaggio in treno, Kim Jee-woon può sfoggiare nuovamente il suo virtuosismo registico, com’era già accaduto ai tempi de Il buono, il matto, il cattivo (il suo folle omaggio in salsa orientale al celebre spaghetti western di Sergio Leone) dove una delle scene più spettacolari si svolgeva proprio a bordo di un treno. Del resto nel cinema coreano degli ultimi anni il treno è diventato uno dei teatri d’azione ricorrenti, basti pensare a titoli come Snowpiercer e Train to Busan. Sul treno, partito da Shangai e utilizzato dai membri della resistenza per fare rientro in patria e trasportare una grande quantità di esplosivi, va in scena un estenuante e sottile gioco del gatto col topo, con la polizia giapponese impegnata a stanare e identificare i ribelli e la tensione che cresce a dismisura fino a deflagrare nello scontro a fuoco nel vagone ristorante. Una scena realizzata a regola d’arte, con movimenti di macchina di grande impatto e dinamicità. Sul treno s’incontrano e si scontrano persone di diverse nazionalità, è un luogo emblematico e metaforico del particolare e doloroso momento storico attraversato dalla Corea durante l’occupazione giapponese. L’arrivo in stazione, con una calma apparente che muta e si trasforma ben presto in un caos infernale e in un nuovo e sanguinario scontro a fuoco, è l’ennesimo pezzo di bravura architettato dal cineasta sudcoreano, che sembra voler rendere omaggio al cinema di Brian De Palma (impossibile non pensare alla celebre scena della stazione ferroviaria in The Untouchables).
Tra le poche pecche del film una durata forse eccessiva (140 minuti), con una serie di sottofinali che si susseguono a catena prima di arrivare ai titoli di coda. Un epilogo più asciutto e compatto avrebbe sicuramente giovato in termini di ritmo ed economia narrativa. Tuttavia è innegabile il talento visivo di Kim Jee-woon, forse il più occidentale dei registi sudcoreani, capace da sempre di lavorare e districarsi tra i vari generi cinematografici, dall’horror al western, passando per il thriller e l’action. The age of shadows ne è un fulgido esempio, una spy story tesa e avvincente contraddistinta da intrighi, voltafaccia e colpi di scena a profusione. Un blockbuster, il primo prodotto dalla divisione coreana della Warner Bros, che riesce a riproporre con intelligenza e solidità modelli e stilemi del miglior cinema hollywoodiano.

voto_4

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.