La favola inesauribile del racconto per immagini.
È una curiosa coincidenza che proprio nel momento in cui James Cameron con il suo Avatar – La via dell’acqua sta secondo molti riscrivendo le coordinate e le stesse possibilità dello sguardo negli anni a venire, sia proprio l’ormai ex Re Mida del cinema americano a ricordarci come la magia del racconto si annidi inevitabilmente, anche e soprattutto, da un’altra parte, lontano da qualsiasi hybris.
L’ingordigia ipertestuale del film di Cameron, al quale va certamente stretta la definizione di blockbuster e di conseguenza spinge come un forsennato il pedale dello spettacolo totale e onnicomprensivo, implacabile macina di storie e di mondi narrativi che appaiono tutti parziali e minuscoli rispetto all’ambizione di rifondare il cinema da parte dell’autore canadese, sembra quasi trovare un contraltare dinamico fatto di scoperta intimità, indifesa autobiografia, cristallina propensione a lasciar(si) andare, ripetizione candida.
Come ha notato anche Manohla Dargis iniziando la sua recensione sul New York Times, pur avendo il regista di E.T. lasciato tracce profonde di sé in quasi ogni opera diretta e spesso anche in quelle solo prodotte, ancora non si era mai messo a nudo come in questo The Fabelmans. Un film che è quindi solo apparentemente “piccolo”, e questo a non badare ai 151 minuti di durata. Ma se nessuno poteva nutrire dubbi sul fatto che i film per Spielberg siano sempre come la realizzazione di un sogno di bambino (lui stesso), vederlo accadere più e più volte sul grande schermo, come nella sequenza dei modellini di treno che si scontrano e che si ispirano al climax di The Greatest Show on Earth di De Mille, è come entrare nel cuore del regista americano e osservarne dal vivo il meccanismo di funzionamento, come ci trovassimo dentro la cassa di un orologio attivo (treni e orologi hanno potere icastico nella storia del cinema). In quella continua stupefazione del ripetersi e dell’avvenire con un angolo, un punto di vista, un piano sempre differente, c’è l’essenza di un’idea di cinema inesauribile, che non può prescindere dall’affabulare ogni volta (e Fabel in inglese si pronuncia come fable, favola), un pozzo senza fondo che può talora anche rivelare qualcosa di inaspettato e di doloroso su di sé e sugli altri – come nella scena della moviola in cui il giovane Sam intuisce la natura dell’amicizia tra la madre e Bennie Loewy – ed è perciò prezioso, agognato, o addirittura spaventoso: e quante vite e storie e speranze ci sono nei film di Spielberg…? e quanti spaventi, pure, da Duel e Lo Squalo in avanti.
Che poi il cinema rappresenti per il regista anche la maniera di proteggersi da quelle paure e persino dagli eccessi di entusiasmo (ripetere e rielaborare, modificare e ripercorrere, tagliare, sincopare fino a rendere invisibile: impersonale, come ha scritto Roberto Manassero nel suo articolo su Cineforum), non può certo rappresentare una sorpresa per chi ha seguito la parabola dell’autore. Solo che la forma per nulla indulgente in cui sono rappresentati i Fabelman, il padre e la madre, sono davvero inusitati e certo deve essere costato molto a Spielberg essere tanto crudo e aperto sul rapporto con i genitori (1). Ma anche in questo, come in genere accade, il miglior cinema ha il potere di ingrandire e immortalare i personaggi: print the legend, si stampi la leggenda, come sempre, e come nel caso dell’arrogante compagno di liceo. E anche se è pleonastico ribadirlo mostrando il regista in erba che va a vedere L’uomo che uccise Liberty Valance e poi si imbatte nel caustico John Ford (in un finale che è già cult per tutte le buone ragioni che riuscite a trovare), cos’è in ultimo il pleonasmo? Niente più che una ripetizione, una sottolineatura di quanto già detto e ribadito (ripetere, ritornare sopra, ancora e ancora). The Fabelmans è pieno di disarmati pleonasmi come di tanti e significativi temi che solo con il tempo si potranno analizzare e approfondire tutti (e dovrei parlare ancora degli attori, incredibili, dei momenti buffi, del commento musicale di John Williams… e di molto altro). E se alcuni critici fanno il muso è solo perché non hanno realizzato quello che il film vuole essere nel profondo: un inno all’emozione sincera e alla libertà di lasciarsi catturare dalle immagini e dalla storia raccontata. Fosse pure la milionesima volta. Un monumento alla vulnerabilità, ecco cos’è The Fabelmans. E anche uno struggente capolavoro.
(1) A questa franchezza si intende che non deve essere estranea la recente scomparsa di entrambi, nel 2017 la madre e nel 2020 il padre, a cui il regista aveva dedicato il suo West Side Story.
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