L’indecenza della malattia.
È un vero peccato che per The Father, con l’ormai consolidata improntitudine, i titolisti italiani offrano una chiave di lettura che, più che essere fuorviante, risulta in definitiva opposta. Ci riferiamo naturalmente al sottotitolo dell’opera prima di Florian Zeller: altro che “nulla” è come sembra, è viceversa proprio “tutto” come sembra. Ossia, ancora una volta, un détour circa l’inaffidabilità delle immagini e della memoria che, mai come nel caso del film, appaiono alla coscienza in tutta la loro impresentabilità e plausibilità (endiadi dal sapore vagamente ossimorico, ce ne rendiamo conto, ma mai come in questo caso i due termini si possono accoppiare).
Tratto dall’opera teatrale dello stesso regista, The Father ha dalla sua anzitutto una scrittura “a volute”, che torna sull’identico per sancirne l’inevitabile (invero)simiglianza e indecenza: nel ritornare dei giorni che scorrono in un tempo indefinito (tanto che tutto potrebbe svolgersi nello spazio di un lungo sogno), il protagonista vive il suo dramma perdendo progressivamente il controllo sul luogo fisico costituito dalla sua abitazione. Costretto a mettere in discussione di essere l’effettivo proprietario dell’appartamento in cui vive, il padre comincia a dubitare anche dell’effettiva identità dei suoi coinquilini, mescola ed equivoca le loro parole, le loro intenzioni, i loro discorsi, persino i loro volti.
Come in Away from Her (2007) di Sarah Polley, la consapevolezza dell’Alzheimer si fa avanti poco a poco e la tentazione di lavorare soprattutto sullo spiazzamento deve essere stata forte. Ma quella che si svolge di fronte allo spettatore è invece un’opera che possiede un climax del tutto differente. Il lavoro sugli spazi e sulla loro progressiva interscambiabilità permette di controbilanciare l’incedere altrimenti meccanico dei colpi di scena e delle improvvise smentite della sceneggiatura. E se si può ritenere ovvia l’insistenza sul parallelismo tra il dolore del protagonista che precipita sempre più nel suo labirinto mentale e il disagio del pubblico che non riesce a rimettere in chiaro le giravolte della storia e si trova a malpartito con i molti pezzi del puzzle, meno agevole è venire a patti con la suddetta indecenza che è sì propria della malattia, ma anche dello sguardo pronto a chiudere l’immagine nella sua bruta efficienza formale di significante. In modo che, alla fine, i conti che pur tornano non tornano mai davvero del tutto.
Ed è questo a salvaguardare infine l’attendibilità del film, ancora più che l’innegabile bravura degli attori: il continuo rimpallo tra la responsabilità spettatoriale nel riempire le falle e l’impossibilità di farlo per davvero dovuta alla sottrazione di frammenti fondamentali dal corpo della vicenda (come della memoria del padre, a cominciare dal misterioso destino dell’altra figlia) si costituisce come una consonanza di secondo livello con la situazione del protagonista. Senza colpi di teatro, solo attraverso un laborioso e potenzialmente infinito – quanto infruttuoso – avvicinamento alla sensazione reale della malattia.
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