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The Good Wife foto2

La felicita è quella cosa che ci passa accanto mentre la cerchiamo.

156 episodi che girano intorno a questo concetto: you can’t always get what you want / but if you try sometimes you find / you get what you need (ovvero, “non puoi avere quello che vuoi: ma se provi e riprovi, potresti trovare quello di cui hai bisogno”), 156 episodi per sette stagioni compattissime di un serial che il Time ha definito uno dei più belli degli ultimi anni. Ora, senza voler essere faziosi, aggiungiamo che per livello di scrittura e di recitazione, The Good Wife – ideata da Patrick e Michelle King – è il serial più bello ed importante degli anni 2000.

(avvertiamo subito che proseguendo la lettura dell’articolo si incorrerà in numerosissimi spoiler!!)

L’ultimo episodio, con una ghignante struttura ad anello, chiude così come nel 2009 la serie aveva aperto: Alicia Florrick dietro al marito, Peter, che annuncia al mondo il suo ritiro dalla carica di governatore per problemi con la giustizia. Con la differenza che se nel primo episodio Alicia, pallida e sciatta nel suo tailleur di Channel mal portato, sembra l’ombra di Peter, nell’ultimo lascerà la mano del marito per seguire un’altra ombra, quella di un amante forse perduto per sempre.
The Good Wife gioca con lo spettatore: lo fa da sempre, dalla prima inquadratura della prima puntata della prima stagione, eppure allo spettatore non concede nulla, perché non c’è serial meno fan service di quello creato dai King. Nessuna concessione alla musica pop (al contrario della Rhimes, i King preferiscono utilizzare musica classica come sottofondo delle vicende dei loro protagonisti; tutt’al più, le rare eccezioni che confermano la regola sono tracks dal gusto molto rigoroso e sobrio, come i Clem Snide); nessuna concessione alle svolte telefonate, alle relazioni amorose contorte e acchiappa-like, nessun personaggio che va dove lo spettatore immagina facilmente che vada.
Perché The Good Wife è un serial che tira dritto per la sua strada lastricata di buone intenzioni che, come si sa, portano però all’inferno: austero e bellissimo, restituisce uno dei ritratti di donna più riusciti, approfonditi e tridimensionali della narrativa degli Anni Zero e Dieci, quell’Alicia Florrick che ha le splendide, dure, delicate ed emozionanti fattezze di Julianna Margulies. È lei la good wife, la buona moglie che guida la storia, è lei attorno alla quale si sviluppano trame e sottotrame intricate ma portate fino alla loro ineluttabile conclusione con scrittura brillante e perfetta, mai fuori misura. Alicia è complessa, carismatica, la bussola morale per eccellenza – almeno all’inizio: perchè The Good Wife rappresenta la sua perdita dell’innocenza, il suo percorso di crescita, la sua scoperta del mondo e attraverso lei il disvelamento della vera natura del mondo e dell’uomo, intrecciando la complessità del nostro presente che lega indissolubilmente pubblico e privato.

Un tempo lei era una persona migliore, le dice il collega Cumming (uno straordinario Michael J. Fox: ma su di lui ci ritorneremo); Lo so: ma chi non viene usato?, risponde lei. The Good Wife è bello quanto tremendamente, assolutamente, disperatamente nichilista, per quel suo non offrire nessuna speranza di salvezza alla natura umana. Che è perversa, diabolica e naturalmente portata al Male. Se una cosa ci ha insegnato Alicia nelle sue 156 puntate è che per sopravvivere alla vita è necessario fortificarsi così tanto da non farsi travolgere dai marosi, al punto da dover necessariamente sacrificare qualcosa di sé, un pezzo della propria anima o della propria vita.

Esemplare, e splendida, lacerante, dolorosa, vibrante, l’ultimissima scena dell’ultima puntata dell’ultima stagione: pur di difendere fino all’ultimo il marito Peter dall’ennesima accusa in tribunale, la buona moglie non esita (“buona” fino in fondo, fino alla fine, fino all’estremo: ma a modo suo) a gettare fango sul marito della collega di studio Diane Lockarth, un uomo integerrimo sul quale però la difesa giudiziaria di Alicia scarica addosso scheletri dimenticati – e perdonati – negli armadi. Nell’ultima sequenza, Alicia e Diane si incontrano in un corridoio: e Diane (Christine Baranski, gigantesca), dopo uno sguardo raggelante che sembra durare un’eternità, dà uno schiaffo all’altra donna.
Uno schiaffo solo: che però getta sulle sue spalle il peso della colpa di sette stagioni di tradimenti e bugie, ma soprattutto del tradimento di un’etica che mai come in The Good Wife è stata così trasparente eppure, come nel personaggio di Diane, alla fin dei conti vera bussola morale della serie, difesa così strenuamente, donandole un senso e un significato più forti del dolore.
E’ emerso dalle parole di cui sopra come ogni interprete abbia dato un pezzo di sé alla serie: e abbiamo nominato Michael J. Fox, che in un superbo gioco metaletterario scherza sul suo Parkinson interpretando un avvocato che sfrutta la malattia; Christine Baranski, alla quale giustamente è stato dedicato uno spin-off, alla fine di The Good Wife, con lei protagonista assoluta; e ancora Josh Charles (Will Gardner, unico grande amore – perduto – di Alicia, al centro di una delle perdite più strazianti della tv); Alan Cumming, Chris Noth, Matt Czuchry, e tutti gli altri attori dal primo all’ultimo. Perché una delle carte vincenti del serial è stata proprio l’estrema attenzione agli attori e quindi ai personaggi, dal primo avvocato fino all’ultimo giudice, ognuno così perfettamente delineato da assumere vita propria.

Insomma, la questione morale al centro della storia (di una casalinga e moglie di che si trova costretta a doversi reinventare dopo il forzato abbandono del marito, e a ricostruire la propria vita professionale e sentimentale) ha investito ogni rivolo ed ogni emanazione, ogni sottotrama e ogni personaggio, fino a trasformare The Good Wife in una sorta di pamphlet, una guida a districarsi o meglio a capire come sopravvivere in un’esistenza che è la somma di politica, lavoro e sentimenti indissolubilmente legati tra di loro, proprio come nella realtà.

It was romantic because it didn’t happen: è la frase con la quale lo “spettro” di Will Gardner libera Alicia dal senso di colpa per non aver vissuto appieno la loro storia d’amore. È quello che non succede davvero, ciò che vorremmo ma non riusciamo a realizzare, a dare un senso alla nostra vita? Il doloroso percorso di Alicia non è come quello di Ellen Parsons (Damages) o di Walther White (Breaking Bad): non è una progressiva perdita dell’innocenza di un individuo fondamentalmente benevolo, bensì una maturazione che sembra positiva per la presa di coscienza e l’assunzione di responsabilità, ma che in realtà è un compromesso morale con la vita stessa che si nega persino a se stessi. Dimenticando, mentre si cerca la felicità, che la felicita è quella cosa che ci passa accanto mentre la cerchiamo.

Nessuno è più felice di te; anche il cielo ha sentimenti blu, e non ci credi ma è vero che nessuno è più felice di te. Nessuno sa che cosa fare; perché nessuno è più felice di te
(da No one’s more happy than you, Clem Snide, dall’episodio 7×12)

voto_5

Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.