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La chiusura di un cerchio.

Il fluido e insinuante piano sequenza che apre The Irishman e conduce lo sguardo dello spettatore nelle stanze e lungo i corridoi di una casa di assistenza per anziani fino ad affacciarsi dritto sul volto di un arzillo Frank Sheeran anticipa, oltre tre ore prima, un’ultima inquadratura in cui il vecchio criminale è preso in penombra, attraverso una porta mezza aperta, solo e pensoso, alle prese con i ricordi delle sue azioni e dei misfatti di una vita intera. Un evidente parallelismo che prelude a una dichiarazione di senso se non fosse per il fatto che, più di quanto non sia un film circolare, The Irishman è un film che chiude un cerchio. E non tanto con un mondo (il film è un’epopea criminale solo ad un primo sguardo), piuttosto con la percezione di una maniera di sentire e di vivere.

Martin Scorsese, da cinefilo e critico, lo capisce bene. Nel tornare dopo oltre vent’anni sui passi del genere gangsteristico (dopo Quei bravi ragazzi e Casinò che ne rappresentavano l’aggiornamento all’avidità, alla frenesia e alla riflessività anni Novanta, e tralasciando lo spurio The Departed), non gli è di sicuro possibile ignorare che l’effigie cinematografica del gangster è passata sotto la macina dei fuorilegge “comici” dei primi film di Tarantino (e dei suoi emuli) e soprattutto della risciacquatura televisiva e psicanalitica dei Soprano; circostanze che hanno smitizzato e svecchiato l’immaginario dei mafiosi senza cedimenti di un tempo, ma hanno anche imbrigliato le linee narrative e stretto i morsetti intorno a un repertorio che comincia a puzzare di avariato (si pensi a prodotti recenti come Gangster Squad, Legend, Black Mass – L’ultimo gangster, La legge della notte) e un po’ pure di hortus conclusus.

Tornare indietro, allora, può avere solo il senso di un ripensamento, al limite di un riposizionamento e, nella prospettiva della parabola individuale di Sheeran, di un’espiazione nei confronti della figlia Peggy, allontanatasi e chiusasi al rapporto col genitore dopo la controversa e oltremodo sinistra scomparsa di Jimmy Hoffa. Senonché Frank, collaboratore di Hoffa nel sindacato camionisti e scagnozzo malavitoso di pochi scrupoli, di espiare sembra avere poca o nessuna voglia se soltanto poco prima di morire rilascia il suo memoir (I Heard You Paint Houses, scritto da Charles Brandt e alle origini del film di Scorsese) e alle domande degli agenti FBI che lo incalzano in casa di riposo perché riveli la verità – ormai deceduti tutti i protagonisti di una stagione – risponde con un ripetuto ed elusivo That’s it! che rimanda al …and that’s that con cui Sam “Ace” Rothstein concludeva Casinò.

L’ambiguità del caso è nascosta dietro l’apparenza della più classica omertà, eppure questo personaggio ineffabile e ostinatamente contraddittorio mette in crisi qualsiasi tentativo di precisa definizione antropologica (in accordo con la complessità che, almeno da Tony Soprano in avanti, i tempi appunto richiedono) e incrina anche la tipizzazione da ennesimo uomo tormentato del cinema di Scorsese che una critica spiccia e logora potrebbe cavalcare. Frank è un veterano di guerra del fronte italiano che in un flashback fa scavare la propria fossa a due soldati nemici per poi ucciderli senza titubanze. È un sicario affidabile quanto in superficie è un buon amico per tutti coloro che considera i suoi amici ed è un padre che non ha tentennamenti se crede di dover pestare qualcuno che ha dato problemi a una delle sue figlie. È un importante dirigente del sindacato e un efficiente esecutore di compiti sporchi, si tratti di commettere un omicidio a bruciapelo per la strada o di far esplodere una fila di taxi parcheggiati. Non sono certo cose nuove per il cinema sulla malavita organizzata e per Scorsese (anche se fanno sempre il loro effetto), ma il personaggio di Sheeran acquisisce man mano che procede il film uno stacco chiaroscurale da cui si esce più sospettosi che persuasi (il che è la prova se mai ce ne fosse stato bisogno che il regista non ha certo fatto il film pensando ad un pubblico non smaliziato come, secondo la vulgata, sarebbe quello di Netflix). Anche il discusso effetto de-aging dei protagonisti curato dalla ILM si costituisce qui come ulteriore vettore di senso autoriale, in forma ben più radicale e pregnante che in Gemini Man o in tanti cinecomics: i delinquenti di oggi sono in fin dei conti parenti prossimi di quelli di ieri e, a un certo punto, non si bada troppo al piano temporale in cui le vicende si susseguono, i malviventi si rispecchiano dentro le epoche in cui si muovono come dentro bolle in cui ritrovano sempre se stessi.

Al lordo di 209 minuti colmi di vicissitudini e di riferimenti storici nonché di tanti personaggi in gran parte ormai codificati, Scorsese concentra gli sguardi su un uomo in particolare e riesce a saldare veramente i conti con l’iconografia mafiosa del cinema; e anche se in The Irishman le donne continuano a ristagnare in una posizione di contorno (con la parziale eccezione di Peggy, una Anna Paquin che ha finalmente modo di tornare ad un ruolo significativo), l’effetto è vagamente simile a quello che Mad Men ha conseguito nel corso delle sue indimenticabili 7 stagioni: parlare di altri uomini, di un altro mondo e di un altro tempo (le vicende su cui il film si concentra di più vanno dall’inizio degli anni Sessanta alla metà degli anni Settanta) mostrandoci qualcuno come Frank che sembra appartenere di diritto anche a un’epoca accidentata, priva di direzione e torturata come la nostra.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.