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THE KIDNAPPING OF MICHEL HOUELLEBECQ

THE KIDNAPPING OF MICHEL HOUELLEBECQ

holloubecq

Restare vivi nel segno della sottomissione.

Michel Houellebecq, si sa, riesce sempre a fare notizia. Ma anche coloro che lo accusano di essere solo un abilissimo provocatore, difficilmente potranno negarne la lucidità nello scegliere i suoi bersagli. Benché quelli – i bersagli – spesso non siano alla resa dei conti quelli che sembrano di primo acchito.

Da un episodio mai del tutto ben chiarito della sua biografia (l’irreperibilità per diversi giorni nel settembre 2011, quando lo scrittore non si presentò ad alcuni incontri con i lettori durante la promozione di La Carta e il Territorio, facendo temere addirittura un rapimento), Guillaume Nicloux ha tratto questo film a metà tra il documentario e il fantastico, che si presenta come un beffardo distillato dei temi dello scrittore, se non proprio come parte integrante di un’opera che si fa sempre più multimediale (considerando anche l’album Présence Humaine). Vedendo The Kidnapping of Michel Houellebecq subito dopo aver letto l’ultimo romanzo, Sottomissione, è impossibile non notare la coerenza del discorso: entrambi – libro e film – sono malinconici saggi tra comico, elegiaco e licenzioso sull’assenza di risposte dell’Occidente all’intima crisi di senso e di valori che lo affligge. In una sorta di ironico contrappunto che rende chiaro l’approdo quanto accidentato il percorso: sia l’accademico studioso di Huysmans del romanzo che lo stesso scrittore “rapito” nel film di Nicloux altro non fanno che attraversare le situazioni più importanti della vita senza trarne lezioni, come se non avessero un piano che va oltre l’immediata soddisfazione dei bisogni “animali”, cibo sesso svago (quando la lettura non basta più, Michel si fa distrarre dai suoi carcerieri con la pratica del pugilato e della lotta).

Nulla che possa sorprendere chi legge Houellebecq quando afferma (in Il senso della lotta) che “il più grande successo del mio percorso terrestre sarà stato non riuscire ad imparare nulla, in alcun caso, della vita”, eppure il retroterra non è mai soltanto provocatorio, semmai è intriso di un umorismo sommesso e sconsolato, come di chi noti la mediocrità di una cultura tanto dominante quanto supponente, che si avvia a un tramonto inglorioso. Ma il tema essenziale non è forse neppure questo. Ciò che fa di The Kidnapping of Michel Houellebecq un film-pendant, ossia in perfetta corrispondenza con l’ultimo romanzo e in collegamento con il resto dell’opera, è proprio la sottomissione. In una prospettiva che esula qui dal discorso sul rapporto tra le religioni, ma declinata nei comportamenti di tutti i suoi alter ego, rappresentati dal rapito (ovviamente) e addirittura dai rapitori, la sottomissione è quell’arrendevolezza che, in cambio di pochi vantaggi materiali e spirituali, fa sì che un individuo o un gruppo di individui siano pronti ad accogliere idee e azioni anche le più distanti da loro, con spregio della coerenza o del significato. In una parola, infischiandosene della ragione, intesa nel senso illuminista, e soprattutto della sua incarnazione più esaltata, la libertà. Una posizione profondamente antitetica a quella della cultura dominante degli ultimi secoli, esaltatrice del “Sapere aude” e della libertà creatrice dell’uomo e fautrice della Morte di Dio. Del resto, sottolinea lo scrittore nelle sue più recenti interviste (per esempio in Contro la Responsabilità: conversazione con Stefano Montefiori, pubblicata dal Corriere della Sera), la società occidentale sarebbe prostrata a causa di una libertà che è diventata ormai insostenibile per il peso che mette sulle spalle degli individui.

Ma, in rapporto con questo grande tema, durante la visione del film torna però alla mente anche il primo scritto di Houellebecq, quel Rester Vivant, che è una dichiarazione d’intenti e di poetica: l’artista è un “parassita sacro”, che prospera tanto nelle società ricche e in decomposizione quanto in quelle frugali e forti. Una consapevolezza della sfida che pone con le spalle al muro la vaghezza dei nostri tempi, l’incapacità di ergersi al di sopra di un pantano di conformismo e consumismo che annacqua qualsiasi azione. Non ha tanto a che fare con la Sindrome di Stoccolma, la meschina e cialtronesca odissea di Michel e dei suoi sequestratori, quanto con la perdita di senso dei ruoli, nel segno di una bêtise che avvolge tanto le vittime che i predatori. In un capitalismo che a questo stadio, e senza scomodare Marx, è senza ombra di dubbio quel “sistema di dipendenze” di cui parlava Kafka, ragnatela vischiosa in cui si perde ogni capacità di giudizio. Certo, in mezzo a tutto questo c’è comunque una tenue possibilità, l’amore: nella giovane prostituta di nome Fatima che Houellebecq incontra col benestare e perfino la premura dei carcerieri, c’è un riflesso della speranza che la donna pur rappresenta (gli incontri tra i due sono trattati senza l’abituale mordacità, anzi, con una tenerezza e un rispetto imprevedibili). L’atteggiamento ilare e un po’ babbeo che aveva tenuto fin lì, il rapito lo perde solo davanti alla donna, al suo mistero e all’infinità di significato che essa potrebbe aprire. Forse è troppo poco, ma in uno scrittore che ha candidamente osato avvicinare la divinità e la sessualità femminile (“A cosa paragonare Dio? Prima di tutto alla fica, ovviamente” diceva un personaggio di Piattaforma), ogni minimo cenno di fiducia è da ritenersi un sentiero possibile, con buona pace di chi ha lamentato in Sottomissione l’assenza del punto di vista dell’altra metà del cielo. Non è probabilmente una “bella” visione, The Kidnapping of Michel Houellebecq. Ma di certo non ci fa dormire tranquilli e a noi sembra che, in tempi anestetizzati come gli attuali, possa anche bastare.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.