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The Post foto1

Al di là dei tempi e dei media, la verità del cinema.

Si può partire dalla data. Ossia il 1971, benché il prologo, in forma di antefatto, mostri il Vietnam e le azioni di guerra di qualche anno prima. Era infatti appena cominciato il decennio della definitiva disillusione, non solo sull’invincibilità americana in campo militare, ma anche sulla saggezza e la rettitudine della massima carica statunitense, il presidente. Cosa che oggi, a decenni di distanza dai Pentagon Papers e dal Watergate e con cinque stagioni di House of Cards alle spalle (ma anche il finale della sesta stagione di Homeland suona minacciosamente distopico) e Donald Trump alla Casa Bianca, può apparire scontata. Ma così non era allora.

Ascoltate i dialoghi di The Post, specialmente nella prima metà, nella quale i due protagonisti si incontrano per la prima volta proprio a colazione in un ristorante: Katharine Graham (Streep) e Ben Bradlee (Hanks) non smettono di fare riferimento alle loro abituali frequentazioni “intime” di Kennedy e Johnson, i due inquilini dello Studio Ovale prima di Nixon, la cui presidenza è evidentemente uno spartiacque (1). C’è stato – sembrerebbe – un prima e un dopo (un post, appunto): prima, l’editrice di un giornale secondario (il Washington Post era secondo anche al Washington Star, quindi persino nella sua città non deteneva il primato) poteva essere invitata nella tenuta del presidente per un fine settimana, fosse pure per caldeggiare un appoggio. Dopo, la stampa libera diventa un ostacolo da aggirare e un inciampo da togliere di mezzo. Se Lincoln era al fondo un’apertura di credito alla politica nel senso migliore (sebbene non privo di asperità), The Post torna a problematizzare i rapporti tra i poteri esaltando la necessità dei contrappesi in favore dei governati. In questo senso, il film di Spielberg salda le epoche e parla di oggi non meno che del passato. E fino a qui tutto torna, non ci sono vere sorprese: se qualcuno può pensare a un’omelia, è solo perché l’autorevolezza del docente può essere a volte recepita come l’eco di una lezione da mandare un po’ faticosamente a memoria.

Dove però si avverte lo scarto rispetto ad altri film dello stesso filone, è nello stile del film. Parrà pure banale, eppure Spielberg non teorizza solo sul piano civile e politico in senso lato, ma anche su quello prettamente cinematografico. Prendiamo Tom Hanks: nelle pose di Ben Bradlee, con le braccia conserte o puntate contro i fianchi, con la camicia a righe, la faccia e la pettinatura da uomo d’altri tempi, ristaglia la figura di personaggi (spesso interpretati dai volti onesti per eccellenza di James Stewart e Gary Cooper) conosciuti in decine di film classici, a partire da quelli di Frank Capra, il riferimento forse più palese, in chiave stilistica ancora meglio che ideologica. E prendiamo i molti volti del cast che hanno un importante presente televisivo recente: da Tracy Letts (senatore e poi capo della CIA in due stagioni della succitata Homeland) a Carrie Coon (The Leftovers), da Matthew Rhys (il protagonista maschile di The Americans) ad Alison Brie (Trudy Campbell in Mad Men) e Jesse Plemons (Friday Night Lights, Breaking Bad, Fargo); per finire con quello forse più rappresentativo, Bob Odenkirk, nei panni del giornalista Ben Bagdikian, il quale quando compare goffo – per due volte – accanto a un telefono a monete, fa scattare un compiaciuto dejavù nello spettatore di Better Call Saul. Le scelte di casting, che ovviamente non hanno nulla di casuale, esplicitano i rimandi ad altro: ma questo non si traduce mai in un ammiccamento, bensì nella sensazione di una linearità che è rintracciabile dal cinema degli anni Trenta alla buona televisione degli ultimi decenni, senza cesure e opposizioni tra sala e tv. Quando, in una delle tante scene girate magistralmente, Ben Bagdikian è costretto a confessare prima di tutto a se stesso che la fonte del Post è la medesima del New York Times, la mdp insegue i personaggi, si apposta, gira, indugia (e la fotografia di Janusz Kaminski è della partita con un preziosismo), torna sul volto dubbioso di Odenkirk. Siamo cioè al di là delle epoche e dei media, in questa esemplare sequenza come in molte altre, per un cinema che appare tanto classico quanto moderno, compatto nelle scelte di scrittura e sempre preciso e “giusto” in quelle di regia. Spielberg crede profondamente nel discorso e nella sua permanenza, oltre le mode e le correnti, oltre i tempi; e si permette tocchi di lieve ironia, nelle ripetute “traversate” a grandi falcate degli spazi redazionali come nelle concitate corse di Bradlee a casa di Kay e, in un’occasione, al giornale in auto (ci piace pensare che non sarebbero spiaciute a Billy Wilder). Ma tutto è tenuto sotto traccia, senza esibire pompe stilistiche eccessive neppure nelle scene madri (le due scene in cui l’editrice deve decidere se pubblicare finiscono rapidamente, senza effetti di dilatazione temporale… addirittura la seconda volta la donna chiude con la (non) scontata battuta “E adesso vado a letto”). Spielberg conosce come pochi altri l’arte di argomentare senza aggettivare oltre il necessario, come già aveva dimostrato Il Ponte delle Spie, col quale è perfino inutile tracciare parallelismi, tanto sono lampanti.

Se “Le notizie sono la prima bozza della Storia”, come Meryl Streep (una volta di più attrice senza pari nel cinema americano odierno) serenamente chiosa mentre le rotative girano, è senza trionfalismi e prosopopea che The Post si conclude. La verità non ha bisogno di essere urlata, solo di essere placidamente porta al pubblico.

 
(1) In The Post la figura di Nixon è sempre inquadrata al crepuscolo e in campo lungo, attraverso la finestra del suo studio, mentre parla al telefono e si ode la sua voce che ordisce piani contro la stampa quotidiana. Più chiaro di così…

voto_5

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.