Anime spezzate.
È un film di morti che non muoiono, The Rider. Il fatto è talmente palese che non c’è pericolo di confondersi con i classici del sottogenere che si muove intorno allo strano e discutibile sport dei rodei: più che a lavori come Junior Bonner (L’Ultimo Buscadero, Sam Peckinpah, 1972) o The Lusty Men (Il Temerario, Nicholas Ray, 1952), il pensiero corre in effetti a The Wrestler (id., Darren Aronofsky, 2008), in cui l’indomito lottatore Mickey Rourke tentava ogni strada pur di tornare sul ring dopo che i medici glielo avevano vietato per ragioni di salute. E, proprio come il protagonista di The Rider, tristemente provava una carriera alternativa come commesso di supermercato prima di arrendersi al richiamo della lotta. To wrestle, to ride: due verbi che indicano la lotta, ma (il secondo) anche la guida, la direzione in cui muoversi. E soprattutto il contatto con qualcosa, un animale, la terra o qualsiasi appiglio che faccia sentire vivi e reali. Un appiglio per esistere e andare avanti.
Il secondo film di Chloé Zhao, cinese di formazione americana, più che una storia ha da raccontare un sentimento, o una sensazione. Con gli attori nei panni di se stessi a rendere tutto ancora meno difeso, meno arroccato nel castello del cinema. Brady Blackburn (Brady Jandreau), il protagonista, dopo l’infortunio non ha più nulla. Ma non ha un’altra vita ad attenderlo dietro la curva. Il suo destino, l’ha consumato. Si muove e respira, parla e si commuove con gli amici, ma è un fantasma. Non lotta, si trascina, oppure si lascia trascinare dal padre e dalla sorella autistica. Potrebbe fare l’istruttore, ma la sua anima è spezzata per sempre. E le praterie del South Dakota in cui il film è ambientato (precisamente nella riserva indiana di Pine Ridge) ritornano ad essere le badlands cantate da Bruce Springsteen nei suoi album più disillusi come Darkness on the Edge of Town e Nebraska: luoghi senza luce e forse senza uscita anche quando il panorama, all’alba e al tramonto, è mozzafiato. Per chi non ha più un avvenire non esiste una consolazione neppure nella natura. Nemmeno (non certo) la famiglia, ormai disgregata dopo la morte della madre e il danno permanente dei due fratelli.
Altro che paese delle seconde opportunità. Raramente si è visto, di recente, un film che mette in questione uno dei punti fermi della cultura americana come questo. Ma non si tratta di un film politico: The Rider cerca sempre il fattore umano, il tratto tragico del discorso, e così facendo brucia ogni potenziale impeto polemico, rimane sospeso. Il finale possibilista non toglie di mezzo l’emozione che prevale lungo il corso dell’opera. La scena che fa più male di tutto The Rider interroga la coscienza degli spettatori. Un cavallo azzoppato che non può più correre ed essere libero va abbattuto per pietà, perché non può più vivere per quello per cui doveva vivere, proverebbe solo pena. Ma un cowboy, dopotutto, è ancora un uomo anche se non può più cavalcare. La domanda nasce spontaneamente dalla similitudine: e Brady la pone infatti. Ma non esiste una risposta, ed è questa la cosa più triste e più vera di tutto il film.
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