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THE ROCK

THE ROCK

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Mi chiamo Michael e credo nell’azione.
È impossibile non fare critica (anche il solo fatto di scrivere e di leggere questi segni neri su di un foglio bianco lo confermano), ma proviamo a disconoscerla per un secondo, sospendiamo il nostro giudizio, almeno per un tratto, e facciamo finta che si tratti di una ricetta: soppesiamo gli ingredienti, aggiustiamo le dosi e apportiamo variazioni a nostro piacimento. Non diamo retta a chi dice che il cinema di Bay è stato spesso un posticcio messaggio repubblicano a supporto della politica interna ed estera dell’allora presidente George W. Bush, ricolmo come uno spot pubblicitario. E non ascoltiamo neanche i critici più incalliti, sempre alla ricerca del sottotesto vincente. Prima guardiamo ai fatti.
Il 7 giugno 1997 vede la luce la seconda fatica del giovane Bay, ovvero The Rock, che incassa ben 25 milioni di dollari in patria nel solo primo weekend (mica male). Il regista viene da un unico film: quel Bad Boys che ha contribuito a lanciare definitivamente sul grande schermo Will Smith, in procinto di separarsi definitivamente dalla sua ormai asfissiante etichetta televisiva attaccatagli addosso da Il principe di Bel Air. Inizia così una carriera fatta d’incassi stellari, fortunati franchise (vedi Transformers), sporadici flop e suddette controversie critiche.
Quindi, perché proprio The Rock da inserire in questa rubrica? Perché sì. Perché si tratta di un ottimo incasso mediamente apprezzato dallo spettatore medio; perché rappresenta il film immediatamente precedente alla consacrazione di Bay presso il grande pubblico e presso certa critica in qualche modo filotarantiniana (il suo trionfo sarà infatti Armageddon – Giudizio finale); perché ha in sé, in nuce, ciò che ha reso distinguibile il cinema ipertrofico e visuale di Bay, fermandosi sempre però sull’orlo del precipizio. Infatti, la sceneggiatura, per quanto labile, riesce ancora a trovare la sua ragion d’essere in varie parti del film, all’inverso di ciò che accadrà nel proseguo della carriera di Bay, soprattutto nella saga Transformers, epitome dello stile entropico del regista californiano.
The Rock rappresenta anche il punto d’incontro attoriale di tre interpreti a loro modo assai significativi. Ed Harris sveste i panni del sempre bravo membro di supporto per dar vita a un cattivo un po’ meno banale del solito. Cage, qui, è nel suo primo vero action movie, e ci sta alla grande, lontano anni luce dalla deriva di questi ultimi anni (per la serie “raccatto tutto”). E Connery? Beh, è semplicemente James Bond scevro da ogni tipo di censura: ora che ha raggiunto la terza età e non dorme più con donne bellissime, può permettersi di tirare coltelli alla gola dei nemici. Ma The Rock è anche altro, è un lungo videoclip mai stanco che si focalizza su temi prettamente americani come il patriottismo o la paura del terrorismo non preoccupandosi di mascherarli, anzi al contrario, proponendo sempre un corrispettivo visivo tonitruante.
Si tratta di un cinema sempre fracassone e volutamente eccessivo in cui vige la logica del distruggere tutto per rimettere a posto tutto (zenit di ciò è forse la sequenza del seguente Armageddon in cui Rockhound – Steve Buscemi – cerca di frantumare l’asteroide mitragliandolo in una sparatoria gratuita e carica di significato al tempo stesso). E più è alta la posta e il valore delle parti in gioco e più il tutto lievita: Harris è un eroe di guerra che vuol far saltare in aria uno dei migliori spot della California e degli States, ovvero la Bay Area, nientemeno che da Alcatraz, Connery il miglior agente segreto rimasto su piazza, Cage il miglior biochimico di tutti i tempi; e c’è di mezzo anche un fantomatico microfilm che svelerebbe i più spinosi segreti americani, assassinio di Kennedy e alieni compresi. Ma come dicevamo, pur non rinunciando all’idea di raggiungere un’estrema sintesi visuale del caos, in cui magari un Hammer blindato viene inseguito da una Ferrari e da una moto da cross portandosi dietro mezza San Francisco, c’è posto per alcuni colpi di penna tutt’altro che disprezzabili. Nelle battute quasi sempre gustose trovano posto citazioni latine, Alcibiade, Sir Walter Raleigh e il grunge, mentre Thomas Jefferson viene “battuto” da Oscar Wilde (uno che di estetica se ne intendeva).
Ci sarebbe da dire ancora molto, ma probabilmente non serve. Le tipiche inquadrature quasi a livello del terreno che puntano verso l’alto con la macchina da presa fluttuante – marchio di fabbrica di Bay – parlano da sole. Stanno lì a incorniciare tutto con i loro artificiali e posticci colori caldi. Tuttavia si tratta di una finzione calcolata, che magari non scalderà il cuore, ma che è in grado di riempire la pancia. E che una volta finito vorresti ce ne fosse ancora.

voto_4

Matteo Catalani
Il cinema l’ha sempre accompagnato (ricorda ancora i pomeriggi passati davanti ai DVD dello zio in compagnia di Terrence Malick e Michael Mann, per poi scoprire come tenere la penna in mano grazie a Glengarry Glen Ross e ai film di Wilder) dirottandolo verso un’(in)felice carriera umanistica a discapito di un futuro scientifico già per lui preconfezionato. Ama lo storytelling in tutte le sue forme, che cerca di far sue con abnorme fatica. In attesa di svegliarsi un giorno avendo già nel cassetto un esordio alla Zadie Smith, o di venir selezionato come point guard titolare dai Portland Trail Blazers, trascorre i suoi indolenti pomeriggi guardando film e tentando di mettere ordine nei suoi pensieri (e nella sua vita). Con “Il Bel Cinema” è alla sua prima esperienza in un sito specializzato.