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THE SECOND GAME

THE SECOND GAME

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Quando il calcio è la sineddoche di un mondo cupo e sepolto nel passato.

Del cinema a tema sportivo di solito si dice che è metafora di altro, dalla lotta per la sopravvivenza (come nel monologo di Al Pacino nello spogliatoio di Ogni Maledetta Domenica) alla politica sottilmente allegorizzata nelle vicende dei personaggi della finzione. Su un altro piano si pongono invece i ricordi personali legati agli eventi sportivi: un po’ come (quasi) tutti ricordano il luogo nel quale si trovavano al momento dell’attentato alle Torri Gemelle, gli appassionati di sport hanno abitualmente viva memoria di dove, come e con chi hanno assistito – poniamo – alle vittoriose finali dei campionati mondiali di calcio del 2006 o del 1982 (o, per un’altra generazione, di come la voce di Nicolò Carosio attraverso la radio li ha fatti entusiasmare per le imprese della nazionale).

Per Corneliu Porumboiu, regista romeno habitué dei maggiori festival ma ancora poco conosciuto in Italia (dove è uscito in sala soltanto il suo primo film, A Est di Bucarest, nel 2006), il match di campionato tra Dinamo Bucarest e Steaua Bucarest giocato nel dicembre 1988 e diretto dal padre Adrian, noto arbitro internazionale dell’epoca, assume un senso particolare. La partita, svoltasi sotto una fitta nevicata, metteva di fronte i due club più titolati del paese, una sorta di Milan-Juventus sui Carpazi, ma aveva anche un dirompente risvolto politico, essendo la Steaua la squadra controllata dall’esercito e la Dinamo quella vicina alla Securitate, la polizia politica del regime comunista di Ceauşescu. The Second Game altro non è che una seconda visione della partita come trasmessa dalla televisione romena all’epoca, ma con il commento fuori campo dei Porumboiu, padre e figlio. Un cartello nero all’inizio rende noto un decisivo antefatto: spaventato da una telefonata anonima, il giovane Corneliu (solo tredicenne al momento del match) temeva sempre per la sorte del padre, minacciato di gravi conseguenze se avesse continuato ad arbitrare. Lo stesso ex arbitro nelle prime battute del film racconta al figlio con serafica calma dei vari tentativi di corruzione a cui era esposto, specialmente in occasione di partite di vertice come quella, in cui entrambe le squadre tenevano a vincere per il prestigio che ne sarebbe venuto. Ma l’atteggiamento abile e dissimulatorio dell’arbitro sembra frutto di una strategia più generale, simile a quella regola del vantaggio di cui come direttore di gara fa ampio e astuto uso durante il match: lasciar giocare il più possibile, per dare il giusto ”tono” alla partita e mantenersi al di qua dell’aspra contesa (la partita finirà, non a caso verrebbe da dire, con il più classico dei risultati ”a occhiali”, malgrado l’agonismo e l’impegno profuso sul campo da calciatori molto noti anche in Occidente – la Steaua aveva vinto la Coppa dei Campioni appena due anni prima, e i calciatori più forti, come Hagi, Stoica, Lacatuş, Piturca, Camataru, Belodedici erano assi riconosciuti all’estero).

Il tono generale diventa in breve lievemente surreale, tanto da provocare una battuta sorniona di Corneliu (“Sembra uno dei miei film… non succede niente”, dal chiaro intento sarcastico) e sottolineare quanto rimane sullo sfondo: dall’anonimato della folla che assisteva all’incontro all’uso delle tre telecamere, una delle quali era quella sulla quale si staccava nel momento in cui il gioco si faceva spigoloso e rude, con censura di tutto quanto veniva considerato inaccettabile e diseducativo. Il discorso è tanto più sottilmente metafilmico quanto più lambisce allusivamente la realtà terribile e nonostante tutto ovattata di una dittatura subita in gran parte in silenzio, restando incapaci di distinguere il reale dal fittizio esattamente come per le immagini mostrate dalla televisione di stato; e un derby come Dinamo-Steaua è in fondo, più che la metafora, la sineddoche di tutta un’epoca e di un regime ad un passo dalla dissoluzione (la fine arriverà l’anno successivo, con la rivoluzione), ma che quasi non se ne accorge, concentrato su di sé e sui suoi rituali. Non c’è in questo film un finale devastante come quello di Police, Adjective (2011), ma curiosamente, nello scarno commento di un evento calcistico un po’ dimenticato, si sente l’eco cupo di un mondo sepolto, del quale i protagonisti sono evidentemente ancora impregnati.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.