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THE VELVET UNDERGROUND

THE VELVET UNDERGROUND

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VU foto1

Una band fuori dagli schemi.

Trattandosi di un genere dai costi produttivi ridotti e dal pubblico sicuro, in questi anni si stanno producendo parecchi Rockumentary. Spesso non hanno grandi specificità filmiche, con un montaggio figlio di MTV in cui una clip musicale serve solo come contrappunto a svariate interviste in primo piano (“talking heads” nel linguaggio anglofono), e non a caso non trovano posto nelle sale se non come film evento quando il soggetto è una band particolarmente famosa. Si potrebbe parlare di retromania, ma in certi casi è un buon modo per avvicinare il pubblico più giovane ad artisti altresì snobbati perché considerati roba da boomer; almeno questi vanno per la maggiore, nonostante ne siano usciti vari su Billie Eilish e sia in arrivo uno sugli Idles. E, qualità estetiche a parte, la scelta dell’artista trattato finisce per gravare sul giudizio che il critico e lo spettatore danno di esso. Infatti, per chi scrive, i Velvet Underground hanno inciso due dei dischi più belli della storia della musica, e l’approccio alla visione risulta ovviamente diverso rispetto a un documentario sui Queen o sugli Europe (chiedo scusa ai fan). Todd Haynes non è certamente un regista televisivo e sa sfruttare pienamente il materiale d’epoca a sua disposizione dimostrando una piena sintonia con l’epoca (fine degli anni ’60) che sta trattando (ciò che ad esempio in Carol poteva sembrare mera maniera nel ricreare gli interni degli anni 50). L’uso dello split screen nel quale alle testimonianze (di oggi) vengono contrapposti gli screen test di Warhol, unendo lo sguardo di Lou Reed, la laconica bellezza di Nico, la musica in sottofondo influenzata dalle teorizzazioni drone, crea un effetto ipnotico più vicino al cinema espanso dell’epoca (chi vuole può anche tracciare parallelismi con Velvet Goldmine e Io non sono qui). Non è un caso che uno dei maggiori intervistati sia il geniale Jonas Mekas (a cui il documentario è dedicato), non solo perché ci ha lasciato due anni fa o perché Haynes usa riprese dal suo Walden e immagini e suoni tratti dal suo Scenes From the Life of Andy Warhol, ma anche perché la prima ora del film è interamente dedicata a restituire la vitalità del contesto storico-sociale in cui è nata una band così fuori dagli schemi dell’epoca: si veda la rabbia nei confronti degli hippie e il rifuto del pubblico (esilaranti le affermazioni d’epoca di una disgustata Cher), a cui ha portato il rumoroso e nichilista White Light/White Heat. La frequentazione con Mekas e Warhol, quindi, allarga il documentario anche a chi non è interessato al rock, e l’uso delle testimonianze evita il manicheismo restituendoci la personalità complessa di un artista tormentato e smanioso di successo come Lou Reed. L’unico neo potrebbe essere l’assenza di testimonianze di musicisti posteriori, dato che l’influenza dei VU si sentì più 10 anni dopo, con la new wave e il post-punk (penso su tutti a Tom Verlaine o Thurston Moore) che durante la summer of love, come si evince dalle entusiaste parole di Jonathan Richman. Avrebbe meritato la sala, ma questo continua a testimoniare l’incommerciabilità di coloro che, dentro e fuori dei loro tempi, non parlano al presente ma rivolti al futuro.

voto_4

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.