Quel mostro di famiglia da documentare. Pardon, da cui fuggire.
Che ci sia voluto un film a microbudget e privo di star per far tornare in carreggiata M. Night Shyamalan? Lontano dal sensazionalismo che aveva contraddistinto tutte le sue precedenti opere, già a partire dal successo planetario de Il sesto senso, questo The Visit appare un oggetto alquanto strano. Rinunciando alla classica formula concept-based: un’idea estremamente forte per un soggetto originale (nei film precedenti: bambini che vedono i morti, organizzazione di attentati per scovare invulnerabili supereroi, piante in grado di far suicidare la popolazione), amplificata da un esasperato coup de théâtre marchio di fabbrica dell’autore. A volte opere riuscite, per carità, ma sempre sull’orlo di un precipizio chiamato film a tesi. The Visit non presenta niente di questo. Si tratta di un film intimo sulla famiglia travestito da factual horror, se proprio vogliamo etichettarlo.
Perché si parla di una famiglia dal passato travagliato, come se ne incontrano molte nella provincia americana: una figlia andatasene di casa sbattendo la porta (Kathryn Hahn) per sposare un uomo con il quale è stata felice per un po’, dando alla luce due figli (Olivia DeJonge ed Ed Oxenbould), i quali ora, in concomitanza dell’inatteso abbandono del padre, vorrebbero conoscere i distanti nonni materni (Deanna Dunagan e Peter McRobbie). E la maggiore dei bambini, Rebecca, piuttosto matura per la sua giovane età, vorrebbe realizzare un documentario su quest’incontro, pietra miliare della sua fin lì breve vita, al quale possa guardare in futuro con una certa distanza prospettica e chiarificatrice, invece di affidarsi all’immediato entusiasmo per la conoscenza dei dolci nonni.
L’intenzione di Rebecca coincide, pura e semplice, con quella del regista: la macchina da presa come sguardo indagatore dell’animo umano ed artificio consapevole, non gratuito come in altri film di genere horror, da The Blair Whitch Project a Paranormal Activity. Grazie alla camera digitale dell’aspirante regista Rebecca, Shyamalan costruisce un intero racconto sulla prossimità e sulla distanza, entrambe fisiche ed emotive, filtrate dall’intelligenza del mezzo cinema. Così, nonostante la prossimità delle rispettive camere da letto, i piccoli non possono verificare quei comportamenti prima strani e poi raccapriccianti dei loro nonni, se non grazie all’occhio tecnologico. La verità si fa più vicina e più lontana, come una zoomata, distorta non dalla macchina da presa, bensì dallo sguardo umano, sempre pronto a razionalizzare. “Sono persone anziane ed eccentriche, che forse non ci stanno più così tanto con la testa, è normale che si comportino in modo strano” – rassicura i ragazzi la madre via Skype.
L’impianto da film di genere – la scansione in giornate che acuisce il lento precipitare in un vortice di follia da parte dello spettatore – serve a Shyamalan a stabilire le regole del gioco. La verità non è mai quella che sembra e la macchina da presa, fredda ed inesorabile, può aiutare in questa ricerca. Shyamalan, e non a caso, in questo tourbillon di commedia (c’è anche quella), e momenti di terrore (magistrale l’inseguimento sotto la veranda della casa), inserisce due sequenze toccanti che paiono stridenti per uno spettatore disattento alla mera ricerca di spaventi, ma al regista interessano quelle. Nella prima, Rebecca, che non si fa problemi ad apparire di fronte all’obiettivo della sua digitale, viene messa di fronte alla sua fobia di guardarsi allo specchio: non vuole fare i conti con chi è per il trauma della fuga di sua madre dalla famiglia che ora sembra ripetersi con suo padre. Lo stesso trauma che vive sua nonna e che, nella seconda sequenza in questione, Rebecca riesce a non far deragliare, invitandola a parlare del suo dolore fingendo che sia la storia di qualcun altro. Perché la macchina da presa è anche in grado di raccontare storie – il cinema serve a quello, no? – e forse proprio per questo motivo ci riporta la verità.
E Shylaman non è da meno anche quando si tratta di tirare le somme. Con la consueta maestria nel mettere in scena la suspense, che certo non gli si può negare neanche nelle opere meno riuscite, forse soffocate dalla voglia di gigantismo che gli prendeva la mano, costruisce un colpo di scena finale estremamente funzionale e che, se chiedete a chi scrive, sembra tutt’altro che telefonato. Come successo fin lì, la macchina da presa è rivelatrice, ma questa volta non è quella di Rebecca. Con un gesto geniale e puramente visivo quanto semplice, viene sfruttata quella prossimità, tecnologica più che fisica, che fino a quel momento era venuta meno: i ragazzi, grazie alla webcam del loro laptop durante una videochiamata con la mamma, la mettono letteralmente di fronte all’agghiacciante pericolo che corrono i figli. Da quel momento in poi il finale è puramente di genere, che suscita l’animo da tifoseria degli spettatori. Ci sono i buoni e i cattivi e non si aspetta altro che il lieto fine o la tragedia. Tutto qua, le cose che a Shyamalan interessano sono state già dette, e bene.
C’è ancora un’ultima postilla finale, a prova di spoiler, che chiude degnamente e forse anche in maniera ambigua il film, che ricolloca il regista di origine indiana sulla mappa dei cinefili. Dato per finito troppo presto, Shyamalan trova nuova linfa , forse grazie anche all’ambientazione invernale e minimal dell’amata Pennsylvania, con pochi attori e un piccolo set da gestire. Si lascia alle spalle la voglia di mettere in scena il film definitivo, quello gravato dal fardello di mostrare il destino del mondo intero (da E venne il giorno fino a After Earth, giocattolone cucito addosso a Will Smith e famiglia), riscoprendo l’intimità di un film familiare sui generis e l’intimismo di un horror “fatto in casa”. La commistione probabilmente non sarà per tutti i gusti, ma non si può certo dire che non sia una piacevole sorpresa.
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