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TIME TO HUNT

TIME TO HUNT

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Ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la quarantena.

Da svariati anni – diciamo dagli albori del nuovo millennio – quando i coreani si cimentano nel cinema di genere, che sia action, thriller, (neo)noir o altro poco importa, sono capaci di sfornare dei veri gioielli che fanno sembrare piccoli piccoli e anche inutili i prodotti americani equivalenti. Eppure, per ragioni storiche e culturali, il cinema sudcoreano di genere si è formato e ha appreso molto da quello hollywoodiano, ne ha fatto sua la lezione per partorire poi qualcosa di unico e diverso dal modello di partenza.

Prendete ad esempio questo Time to Hunt, appena sbarcato su Netflix (fortunatamente solo in lingua originale con sottotitoli) dopo essere passato dal festival di Berlino, secondo lungometraggio scritto e diretto da Yoon Sung-hyun, classe 1982. Una discreta bombetta che inizia come un heist movie per poi mutare in un action thriller ad altissima tensione.

In un prossimo futuro mesto e decadente (post Covid19? chissà…) per non dire distopico, tre ragazzi amici per la pelle si aggirano in una metropoli sporca e fatiscente, popolata da orde di poveri e dalla sempreverde criminalità organizzata. Uno di loro, Jun-seok, è appena uscito di prigione dopo aver scontato una condanna di tre anni. Il futuro è incerto, anzi proprio brutto, si cerca una via di fuga per poter migrare in un paradiso non troppo lontano (Taiwan), a portata di nave. E così i tre sprovveduti, di cui uno interpretato dall’astro nascente Choi Woo-sik già visto in Okja, Parasite e Train to Busan, decidono di svoltare rapinando una sala da gioco clandestina gestita dalla mala. Non possono neanche immaginare a cosa stanno andando incontro.

Si diceva del modello americano qui ben palese e evidente. Ovviamente di un cinema statunitense bell’e che morto o in stato comatoso e in via d’estinzione. In Time to Hunt c’è una figura che rischia spesso e volentieri di divorarsi tutto il film, quella del killer sornione e implacabile assoldato dai criminali gestori della sala da gioco per dar la caccia ai ladri e recuperare non tanto le banconote, ma dei preziosi hard disk che i tre malcapitati con l’aiuto di un complice interno si sono portati via insieme al resto della refurtiva. Il killer in questione è una via di mezzo tra il primo – leggendario – Terminator  e lo psicopatico autostoppista assassino magistralmente interpretato da Rutger Hauer in The Hitcher, film di culto di metà anni ’80 (se non l’avete mai visto correte ai ripari dopo esservi autoinflitti una bella e sonora sculacciata). Aggiungete a tutto ciò violenti e cruenti scontri a fuoco con tanto di giubbotti antiproiettile e di fucili d’assalto a ripetizione per le vie notturne attigue a un porto spettrale che rimandano inequivocabilmente a Heat, capolavorissimo di Mr. Michael Mann di metà anni ’90 (se non l’avete mai visto siete matti da legare). Non vi basta, dite che è poco? Il talentuoso regista dimostra mano salda e ferma, mette in scena una rapina coreografata alla perfezione, usa gli spazi e gli ambienti in cui si muovono i personaggi in modo pazzesco, ha un senso del ritmo incredibile, sa come gestire la suspense e la tensione che precedono gli scontri a fuoco e riesce a incollare il pubblico al divano (in sostituzione delle poltroncine di una sala cinematografica che, dopo due mesi di lockdown, ci manca quasi come l’aria) per due ore abbondanti. Perché quando si è braccati da un killer sadico, malato e anche un po’ sovrumano il pericolo può annidarsi ovunque, in un parcheggio sotterraneo immerso nel buio, nei corridoi deserti e silenziosi di un ospedale addormentato nel cuore della notte o in un enorme stabile arrugginito, malandato e fatiscente ubicato nei pressi di un porto mercantile da cui salpare per cambiare vita e provare a lasciarsi tutto alle spalle.

Tecnicamente ineccepibile, Time to Hunt richiede ed esige da parte dello spettatore una dose ricca e abbondante di sospensione dell’incredulità, ma se si sta al gioco – intricato e multiforme – ci si diverte non poco. In attesa di un possibile sequel resta solo da augurarsi che il Dio del cinema abbia sempre in gloria questi sudcoreani folli e mattacchioni!

voto_4

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.