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Titane foto3
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La fiaba cyberpunk, furente e passionale di Julia Ducournau.
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Incipit: Alexia è una bambina con un’attrazione innata per le automobili: seduta in macchina ne imita il rombo del motore, per il disappunto di suo padre, costretto ad alzare al massimo il volume della radio pur di non sentirla. Ad Alexia viene impiantata una placca di metallo in testa in seguito a un incidente automobilistico; una cicatrice le ricorderà per sempre quell’evento traumatico. Stacco. Divenuta adulta Alexia non ha perso la passione per i motori, si esibisce come ballerina di lap dance sopra automobili lucenti e cromate in saloni frequentati da soli uomini che talvolta possono diventare molesti, se non pericolosi. Alexia però sa come difendersi e con gli anni, oltre all’irrefrenabile e morbosa attrazione per le auto, ha sviluppato un’irrefrenabile pulsione omicida che un giorno la porta a compiere una mattanza che la costringerà a darsi alla fuga fino a trovare sul suo cammino un comandante dei vigili del fuoco con alle spalle un vissuto doloroso, bisognoso di affetto e di legami familiari. Il film di Julia Ducournau, Palma d’oro (la seconda a una regista donna dopo il trionfo di Jane Campion nel 1993 con Lezioni di Piano) contestata da buona parte della critica all’ultima edizione del festival di Cannes, mira costantemente a scioccare e provocare il pubblico. Non si tratta però di una provocazione gratuita e fine a se stessa, volta solo a sconvolgere o impressionare lo spettatore. Al suo interno trovano spazio diverse tematiche e diversi generi cinematografici – il dramma familiare, l’horror, la commedia ner(issim)a – utilizzati dall’autrice, responsabile in prima persona del soggetto e della sceneggiatura, per costruire una storia che cambia e muta pelle a più riprese, finendo per sorprendere e spiazzare lo spettatore. C’è molta, forse troppa, carne al fuoco in Titane, che in fondo rimane un’opera seconda – ovvero la più insidiosa e difficile da realizzare – di una regista ancora piuttosto giovane (classe 83) ma di sicuro talento e con una sana propensione per il cinema di genere, emersa a livello internazionale dopo il grande clamore suscitato da Raw, il suo lungo d’esordio presentato nel 2016 sempre a Cannes all’interno della Semaine de la Critique. Oltre al sangue ed altri liquidi organici e inorganici, oltre alla violenza, talvolta quasi insostenibile ma stemperata a tratti da una certa ironia (si pensi alla mattanza perpetrata dalla protagonista sulle note di Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli nella casa dove a sorpresa spuntano fuori diverse persone che Alexia ignorava fossero presenti) che hanno causato al film un’uscita vietata ai minori di 18 anni, c’è una storia che si dipana a poco a poco e che prende vie inaspettate. Alla fine in quest’opera di fantasia estrema e bizzarra, in questa fiaba dark dalle venature cyberpunk ritroviamo come filo conduttore il classico – e spesso abusato nel cinema d’autore – incontro di due solitudini, l’avvicinamento tra due persone che hanno in comune un passato traumatico e doloroso e un presente grigio, incerto e precario, in cerca d’affetto e d’amore (in modo inconscio e inconsapevole per quanto riguarda Alexia divenuta nel frattempo Adrien per camuffarsi e sfuggire alle forze dell’ordine), di una famiglia elettiva che possa sopperire alle mancanze e alle ferite fisiche e psicologiche causate da quella naturale. L’estetica di Titane è lontanissima da quella cronenberghiana, citata dai più a sproposito dopo il passaggio del film sulla Croisette. Per intenderci, il paragone abusato con Crash del maestro canadese c’incastra poco o nulla, come ripetuto più volte nelle interviste dalla stessa Ducournau che semmai ha citato un altro suo titolo di culto, La Mosca, un film (che insieme a Un Mondo Perfetto di Clint Eastwood e The Elephant Man di David Lynch è il titolo che più fa piangere e commuovere l’autrice francese) che per l’appunto parla d’amore e di passione (1). Il tema della mutazione del corpo è ben presente nel lavoro della Ducournau ma non tanto per il suo immediato rimando al rapporto col metallo (presente fin dal titolo), quanto piuttosto per i riferimenti all’identità di genere e alla maternità. Piaccia o meno, lo si ami o lo si odi, se ne esca disgustati o rapiti e ipnotizzati, Titane costituisce un’esperienza singolare, se non unica, a livello visivo, emotivo e sensoriale. Un’esperienza immersiva, qualora si riesca a entrare nel mood del film, amplificata e potenziata dalla visione sul grande schermo.
(1) La Mosca è un film d’amore come m’immagino sia Titane, un amore impossibile e ostacolato. Mostra fino a che punto si sia capaci di amare e quando si è costretti a fare un passo indietro perché chi si ama è diventato qualcos’altro. (Julia Ducornau, Film TV N.38 del 21/09/2021)
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Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.