Le piroette della vita.
Con facile analogia potremmo cavarcela dicendo che anche dal punto di vista biografico Tonya Maxine Harding è stata impegnata, in un modo o in un altro, in un triplo axel: venire fuori prima da un’infanzia problematica accanto a una madre sconsiderata e cinica che la bistrattava e colpevolizzava ogni volta che poteva, poi da un matrimonio con Jeff, un poco di buono che la picchiava e la metteva nei guai; infine, a fatica, da uno scandalo mondiale in cui si trovò coinvolta (almeno secondo la sua versione) più per ingenuità che per autentica cattiveria o desiderio di far del male alla rivale Nancy Kerrigan. Tutte e tre le situazioni si inanellano una sull’altra a comporre il paratesto del fatto sportivo, che in questo senso rileva quasi nonostante il materiale biografico, capovolgendo il tradizionale canone del film sportivo americano nel quale il campione attraverso la forza di volontà e tenendo fisso lo sguardo all’obiettivo ottiene infine il traguardo agognato.
Craig Gillespie (regista interessante fin dall’esordio nel 2007 con Lars e una ragazza tutta sua, con Ryan Gosling) non è del resto nuovo al cinema di matrice sportiva (Million Dollar Arm è del 2014) e il copione di Steven Rogers rivela la piena coscienza che quella della pattinatrice dell’Oregon non è la tipica storia imperniata sul sogno americano e sulle sue declinazioni cinematografiche. Tonya rimane un personaggio ambiguo e inclassificabile, volta per volta affascinante o respingente. L’atteggiamento che prevale negli spezzoni delle false interviste che punteggiano il film è quello di chi pensa a discolparsi, asserendo ripetutamente che lei non poteva farci nulla. In questo senso, se prendessimo alla lettera le sue affermazioni in quanto eroina di una triste vicenda, dovremmo concludere per un determinismo di fondo che contraddice in nuce proprio quel percorso da film sportivo a cui accennavamo dianzi: se un ambiente malato produce frutti distruttivi e velenosi come la Harding, Tonya è (sarebbe) l’anti-film sportivo per eccellenza, l’anticorpo del sistema apparentemente ideale che produce benessere e opportunità di vita felice per chiunque, a patto che ci si impegni con tutte le proprie forze.
Ci sembra però una pista che, sebbene sia stuzzicante e non banale, ci porta in parte fuori strada rispetto al vero centro del film – per quanto sia possibile individuare un nucleo in un’opera orgogliosamente centrifuga e plurale. Tonya Harding sapeva di non essere un cigno, si definisce una “contadinotta”, ma è fiera di essere stata la prima donna americana nella storia a completare un triplo axel in gara. Questa sua rivincita nei confronti del mondo che non credeva in lei (dalla madre che pagava qualcuno per insultarla e in tal modo motivarla fino ai giudici delle gare inclini a premiare la bellezza apollinea dell’interpretazione di pattinatrici come Kerrigan e le altre rivali di Harding) fa a pugni con tutta la goffaggine delle sue azioni nella vita. La regia furbamente le evidenzia in forma didascalica, e qui basterebbe accennare alla sequenza in cui Tonya e il futuro marito Jeff si baciano per la prima volta: sulle note di Romeo and Juliet dei Dire Straits il loro ménage finisce in un tunnel (of love?) di botte da orbi e riconciliazioni da manuale dell’amore disfunzionale (che si concluderà – ma in realtà è tutt’altro che finito, il bello comincia lì – con Goodbye Stranger dei Supertramp: la colonna sonora pop è fondamentale sottolineatura della storia). La rivendicazione dell’alternativa personale, che la pattinatrice mette in opera anche attraverso le scelte eccentriche nel look e nelle musiche inconsuete utilizzate per le piroette sul ghiaccio, è anche ciò che mette nei guai la ragazza. Attaccandosi a un balordo come lei finisce per subirne, oltre alle percosse, anche le conseguenze delle cattive frequentazioni di drop out ed emarginati: e se è fin troppo facile rifarsi, come ha fatto la critica, ai noir dei fratelli Coen e degli anni Novanta (1) per descrivere l’enorme balordaggine dei protagonisti del ferimento di Nancy Kerrigan, molto più arduo è sussumere l’insieme di stimoli che Tonya propone dentro l’alveo del biopic. Il titolo originale I, Tonya è non a caso molto più ironico della sua traduzione italiana, dato che pone l’accento su un’identità che la sceneggiatura e poi tutto il film polverizzano e mettono in dubbio.
Il film di Gillespie non è una parabola morale proprio perché non ha morali semplici da offrire, né sa mettere ordine in una materia umana che ribolle di troppe contraddizioni. Le stesse di una ragazza che, ancora giovanissima (all’epoca dei fatti la Harding era poco più che ventenne), si trovò in mezzo a situazioni più grandi di lei e già condannata, da una giuria nel 1994, a fare a meno della sua unica possibilità di riscatto dai suoi incubi. Lo spegnersi dei riflettori su di lei è sancito (2) dalla sua consapevolezza (“Prima mi amarono, poi mi odiarono, infine divenni una barzelletta”) e dall’amara constatazione – ma la rivendicazione non è “politica” – che non c’è spazio per un modo diverso di emergere, nell’America delle mille possibilità e delle libertà inviolabili. Tonya non ha saputo essere “uguale” e ha pagato, benché per un istante abbia trovato la gloria è stata poi risputata nel suo piccolo inferno, come un freak di cui si è preferito dimenticarsi. Sarà pure un personaggio controverso, ma la simpatia che finisce per ispirare, malgrado tutto, è un merito indubbio del film.
(1) Vengono in mente i perdenti dei film di John Dahl e per un attimo, nello sgangherato rapporto tra Jeff e Tonya, i protagonisti del magnifico Crocevia per l’inferno di John McNaughton: dove Ashley Judd, in un’incongrua apparizione a un matrimonio, indossava i pattini.
(2) Oltre che dallo scandalo di O. J. Simpson, mostrato in brevissimo flash televisivo, che nello stesso anno attrasse in seguito l’attenzione del pubblico su una storia più morbosa della sua.
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