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L’illusione di capire.

Il giornalismo d’inchiesta che cerca di ragionare sulla vita delle classi salariate finite ai margini delle società occidentali è diventato negli ultimi decenni un singolare filone della saggistica: da Nickel and Dimed: On Not Getting By in America (Una Paga da Fame, 2001) di Barbara Ehrenreich a Nomadland: Surviving America in the Twenty-First Century (Nomadland: Un Racconto d’inchiesta, 2017) di Jessica Bruder, le voci che hanno scrutato da vicino una contemporaneità velata e spesso ignorata da molti benpensanti (ma sovente fatta di soprusi, stenti e paghe insufficienti) si sono moltiplicate e hanno squarciato il velo dell’ipocrisia intorno a concetti pervicacemente avvolti nell’eufemismo quali flessibilità e libero mercato del lavoro. Le quai de Ouistreham di Florence Aubenas, già giornalista di Libération e Le Monde, si inserisce nella stessa traccia, ma il film che ne è stato tratto ha un asset in più a suo favore: la capacità di Emmanuel Carrère di offrirgli dei significati ulteriori.

Lo scrittore di L’avversario e di Limonov è una figura spuria quando adatta o scrive per il cinema. Dopo il curioso esperimento di L’amore sospetto (La Moustache, 2005), da un suo romanzo che viaggia tra Gogol, Pirandello e Philip K. Dick, Carrère sembra essere riuscito a catturare nella sua orbita un tema come quello del lavoro, caro al recente cinema francese. Solo che l’ha intinto in qualcosa di diverso e l’ha arricchito di una coloritura che, se non è veramente nuova, è declinata in forma del tutto personale.

Tra due mondi è fiction nella fiction per i primi trenta minuti della sua durata (quando ancora lo spettatore non sa per certo chi sia veramente la protagonista, pur avendo un indizio nel taccuino per prendere appunti che Marianne porta con sé): la secca tranche de vie del centro per l’impiego ci sbatte subito addosso la necessità di chi cerca un lavoro di recitare una parte, attraverso la facciata del curriculum e delle risposte obbligate ai selezionatori, attraverso cioè un atteggiamento che è come si suol dire proattivo e forzatamente ottimista (come accade un po’ anche in Rien à foutre con Adèle Exarchopoulos, in uscita da noi a breve con il titolo Generazione Low Cost).

Ma dopo questa prima parte in fondo più risaputa e prevedibile – si pensi alle scene della formazione degli addetti alle pulizie -, si assiste a una sorta di divaricazione: più Marianne (Juliette Binoche come d’abitudine impeccabile) si addentra nella sua finzione e più per lei quel mondo si fa vero, un documentario sulla sua pelle si potrebbe dire; mentre per il pubblico si fa quasi voyeuristico, vagamente impudico, mimetico nel senso che è il punto di vista dell’osservatore a farsi vampiro delle vite altrui, anche se in modo meno evidente di quanto accada alla giornalista e scrittrice nella calata agli inferi del lavoro malpagato e invisibile.

Carrère prova insomma a ricordarci come vita e osservazione della vita mal si concilino e, se portati avanti insieme, conducano infine a uno stallo e al bivio di un’impossibilità, quella di concedersi all’altro se si rimane un passo indietro. Come nel coerentissimo e malinconico finale, che alcuni interpretano sotto forma di lotta di classe (pista autorizzata dallo stesso scrittore in una recente intervista al Corriere della Sera), ma appare più come l’intima consapevolezza che i ruoli e gli sguardi non sono intercambiabili, che gli esseri umani non sono infine destinati a parlarsi né a capirsi veramente. Christèle (la non professionista Hélène Lambert, diretta splendidamente) non riconosce più l’amica e compagna Marianne in quella scrittrice elegante e chic della buona borghesia intellettuale parigina. Troppo diverso il punto di osservazione. Troppo lontana la sua origine, i suoi pensieri, il suo vissuto. E per lo stesso spettatore che ha condiviso il percorso di Marianne, arriva lo scacco: quel traghetto che parte da Ouistreham (la cittadina teatro del simenoniano Porto delle Nebbie) alla volta dell’Inghilterra porta via con sé anche l’illusione di calarsi in vite diverse e di essere davvero solidale con gli altri.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.