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TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI

TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI

Three Billboards foto1

L’ultimo film di Martin McDonagh.

Ci sono film in cui il desiderio di classicità è semplicemente dichiarato fin dal principio, addirittura come un elemento della poetica dell’autore o come un partito preso essenziale per la comprensione. L’ultimo film di Woody Allen, Wonder Wheel, non teme per esempio di confrontarsi con il cinema hollywoodiano degli anni d’oro – nella sua accezione melò prima di tutto – mentre è invece nello scarto e nel confronto con i modelli che vivono operazioni come gli ultimi film di Star Wars, non per niente oggetto di discussioni e di confronti accaniti tra i fan proprio rispetto al canone che contraddistingue la saga. Tutto chiaro e piano, e perfettamente accettabile in un’epoca di rielaborazione come l’attuale, ma poi ci sono film come Three Billboards Outside Ebbing, Missouri: che si ammanta un po’ goliardico di una “classicità” alternativa, quella del post moderno maturo (da Tarantino ai Coen, come hanno detto un po’ tutti e come è persino stucchevole ripetere), ma ha un’anima del tutto diversa e nemmeno così celata, classicheggiante cioè nel senso antico del termine.

Basta farci caso, a partire proprio dalla molto (troppo) celebrata sceneggiatura. La donna che cerca giustizia per i torti ricevuti e sfida lo sceriffo inerte, per quanto non cattivo e anzi, profondamente empatico. Il paese codino e razzista che affiora dietro una facciata perbenista, con scoppi clamorosi e del tutto improvvisi di violenza. L’incendio dei cartelloni dello scandalo, girato come se si trattasse di una delle tante rappresaglie notturne viste in decine di western. Per non parlare del finale, quando la coppia più strana e imprevista si avvia verso Ovest. Ci vanno in macchina, ma non è difficile immaginare due cowboy o due pistoleri disillusi che stringono un’alleanza di comune interesse, salgono sui loro destrieri e quasi si piacciono e si divertono insieme, come in un film di John Ford, Cavalcarono insieme o un altro.

Martin McDonagh, al terzo film dopo In Bruges e 7 psicopatici, ha insomma imparato la lezione. Persegue il cult e si pasce dei suoi modelli come ha sempre fatto finora, ma stavolta ha cura, oltre che di fare evolvere i personaggi, di costruire sottotesti e metatesti per non lasciare a bocca asciutta i critici che cercano l’impegno e l’accenno a un discorso sull’America (di Trump, va da sé). E forse a non soddisfare appieno in questo film, è proprio il modo in cui vengono dosati gli ingredienti, la matematica che porta a un politically correct di segno uguale e contrario a quello tradizionalmente inteso. Ingegnoso, ma in fondo furbo come uno stratagemma di scrittura poco dissimulato, cambiare e sfumare sotto gli occhi dei compiaciuti spettatori i caratteri e le reazioni di entrambi i personaggi principali (quelli del finale suddetto); togliere di mezzo quello che sembrava il deuteragonista a metà film è un’altra trovata calcolata al millimetro – si veda pure come la sequenza del suicidio sia particolarmente studiata per essere ben recepita da un pubblico che apprezza qualcosa di non troppo convenzionale. Per non parlare dell’ennesima cittadina americana che conferma gli stereotipi, un po’ tutti. Alla fine, per quanto si possa assentire sulle singole parti, c’è come la sensazione che l’insieme non sia esattamente sincero, che la direzione presa dal film sia solo frutto dell’ennesimo colpo di sceneggiatura e che questi personaggi, più che da amare, siano da applaudire. Ma l’(auto)assoluzione è un esito che certifica come il film del regista irlandese sia riuscito più sulla carta che negli effetti duraturi sul pubblico. Lo spettatore esce dalla sala, loda il film per il talento di regista e attori e sente, indirettamente, che può pure dimenticarsene. Bell’affare.

voto_3

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.