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Il tempo del riciclaggio.

Ci devono pur essere delle ragioni se il cinema di Ruben Östlund continua a riscuotere tanto successo presso le giurie festivaliere, al punto da meritarsi (?) due Palme d’oro consecutive (il presidente della giuria che premiò The Square, nel 2017, fu Pedro Almodovar, quest’anno invece è stato Vincent Lindon: due monumenti del cinema europeo). Per discuterne si potrebbe allungare il brodo all’infinito con tavole rotonde che, quasi ci scommettiamo, non saranno mancate, ma noi preferiamo il rasoio di Occam e cercheremo di farla relativamente corta (1).

Il cinema dell’autore svedese era partito con le migliori premesse: Play era effettivamente un film che aveva diversi tratti stranianti e metteva a volte in difficoltà lo spettatore benintenzionato e in senso lato aperto al multiculturalismo. E in ciò, se vogliamo, qualche ridondante graffio satirico ci stava a pennello. Sono passati solo dieci anni o poco più, ma sarebbe già da verificare se il film resiste bene alla prova del tempo (non l’ho rivisto di recente e non so più bene dove ho messo il dvd), comunque la sensazione di essersi sbagliati per eccesso di fiducia ci era piombata addosso già col successivo Forza Maggiore. Che con tutta la buona volontà e la generosità possibili (come quella del premio della giuria in Un Certain Regard), insinuava già i primi netti segni del calcolo di un cinema che pecca(va) nel suo simbolismo fin troppo leggibile e si limitava a sguazzare con dubbia enfasi e un filo (ehm) di pesantezza ilare negli interrogativi esistenziali e psicologici della famiglia borghese. Alla fine, lo spettatore restava più disorientato che convinto, ma il palco reggeva ancora, tutto sommato. Bergman, come dissero in parecchi? Beh, quello è meglio lasciarlo su altri pianeti.

Veniamo ai due film che hanno vinto la Palma: con The Square, che è quasi il primo elemento del dittico con Triangle of Sadness (2), il regista scandinavo gettava ogni maschera e si dichiarava ultimo alfiere (ed epigono) di quel cinema europeo della crudeltà e del disagio della civiltà che si mantiene in incerto beccheggio tra (troppi) numi tutelari, da Buñuel a Haneke, per mettere alla berlina il gusto orrido e l’ipocrisia della contemporaneità. Con molti dubbi e percorsi interrotti che agli occhi di tanti spettatori d’essai suonavano come la conferma che l’arte del nostro tempo è malata senza rimedio: e la performance dell’artista-scimmione che rischiava di volgere in tragedia era solo lo sberleffo più grosso di una serie, e un’ulteriore sottolineatura rivelatrice.

Idea vincente non si cambia e anzi si ricicla: ed ecco che Triangle of Sadness si apre sulle baruffe di una coppia di giovani privilegiati, a loro modo artisti, ossia Carl, un modello con qualche (eufemismo) insicurezza e Yaya, un’influencer che guadagna più di lui. Ma i loro saliscendi sentimentali, per quanto “feroci”, dopo un po’ sanno di bigino e presa in giro al pubblico, tanto che il segmento coi due belli e impossibili dura poco rispetto al corpo centrale del film ambientato in crociera (dove li ritroviamo imbarcati, ma non più da soli al centro dell’attenzione). A bordo della nave, c’è quella che dovrebbe risultare insieme come la crème e la polpa dell’opulenta civiltà occidentale, è naturale: ricconi debosciati di serie B (tra cui un magnate russo che ha fatto i soldi con la merda, ipse dixit), un personale tutto addestrato all’efficienza e alla customer satisfaction, un capitano con sogni socialisti. In pratica il bestiario che una rivista patinata e insieme radical metterebbe sugli scudi per dileggiarlo, mostrarne la deriva e il naufragio. E infatti… può forse il regista farne a meno? Di un bel naufragio intendiamo: che ovviamente avviene, nel modo più grottesco possibile, tra vomiti vari e dibattiti insensati all’interfono tra l’oligarca capitalista e il comandante di sinistra. Ma che bella metafora spessa e originale! E quel che c’è dopo, nell’ultima parte, è logica conseguenza delle premesse (stringendo: è un banale jeu de massacre con classici rovesciamenti terzomondisti delle parti, opportunismi e riposizionamenti).

I film di Ruben Östlund puntano tutte le loro fiches sulla possibilità di stupire ponendosi come uno specchio e un’interrogazione per lo spettatore. Ma non si chiedono mai se, nel 2022, stiano facendo la cosa giusta o meno, lo danno per assodato: e tengono per sicuro pure che le risposte dello spettatore siano quelle che hanno già previsto e in un certo senso confezionato, tra imbarazzo e risate, come in una vecchia Candid camera. La satira è di pessimo gusto e il regista se ne fotte (scusate il linguaggio, ma Östlund lo stimola) perché all’umanità che siamo diventati è ciò che pertiene. In questo film ancora di più, perché tutto è chiaro, lapalissiano: cosa ci sarebbe da capire? Sorprendere per confermare, ecco tutto.

Di modo che, se ancora con The Square potevamo nutrire perplessità sul vero bersaglio, con Triangle of Sadness ci togliamo ogni ambivalenza di torno. Il film è una pedante tiritera sul nostro mondo alla frutta, stipato di tutti i luoghi comuni più stantii. Dove però manca una cosa essenziale, la sincerità dell’ispirazione, il dolore del disastro delle migliori opere di Marco Ferreri, a cominciare da La Grande Abbuffata (che però a Cannes fu fischiato: eh, che dire… erano proprio altri tempi), e che si traduceva in una forma di pietas, magari estrema. Per rispondere alla domanda iniziale, sul perché di un successo presso le giurie che ci pare sproporzionato, potremmo allora metterla così: in quest’ultimo film di Östlund c’è il riciclaggio compiaciuto delle forme retoriche di un cinema che riusciva a scuotere le fondamenta del nostro modo di pensare. Poco conta, evidentemente, che quel passato non possa resuscitare.

(1) A differenza di Östlund, che sembra sempre meno interessato alla sintesi (e questo dovrebbe dirci qualcosa): i suoi ultimi cinque lungometraggi in ordine cronologico sono di durata sempre crescente e dai 98 minuti di Involuntary si arriva ai ben 147 di questo Triangle of Sadness. Per la cronaca: Play 113 minuti, Forza Maggiore 120, The Square 132.

(2) Il prossimo film del regista, che dovrebbe essere ambientato su un aereo e ispirato a Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley, potrebbe però ampliare lo spettro del suo “affresco” in un polittico di cui per ora vediamo solo una parte.

voto_2

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.