Ancora un pastiche.
Il cinema di Arnaud Desplechin continua a sfuggire alla piena catalogazione: da I re e la regina a Racconto di Natale e Roubaix, una luce (passando per tappe intermedie quali I miei giorni più belli e I fantasmi d’Ismael) nel corpus del regista francese è tutto un annoverare temi ricorrenti e sciorinare rime improprie che, all’interno dell’intellettualismo vitalistico dell’autore, si rincorrono e non sembrano mai del tutto gli stessi. È verosimile che, con la trasposizione del romanzo di Philip Roth (ammesso si possa definirlo in questo modo: ma la materia è senza dubbio romanzesca), Desplechin sia ad un punto d’arrivo della sua poetica. Eppure non ci sentiremmo di giurarlo e non ci stupiremmo se il suo nuovo progetto già in rampa di lancio (Frère et Sœur, storia di un’attrice e di un poeta di successo con Melvil Poupaud e Marion Cotillard, sarà in competizione all’imminente Festival di Cannes) si rivelasse l’ulteriore tassello di un rompicapo che si è fatto via via più indecifrabile, ma rimane sfizioso e stimolante, forse senza veri paragoni nel cinema d’oggi.
Ma se da una parte abbiamo un filmmaker impervio, dall’altra c’è in questa circostanza uno scrittore arduo da filmare: e i falliti adattamenti di Pastorale americana (da parte di Ewan McGregor) e di La macchia umana (a cura di Robert Benton), ma anche del tardo The Humbling (opera di Barry Levinson), stanno lì a dimostrarlo (1). Insomma, l’operazione Tromperie prometteva bene e male allo stesso tempo, tanto più che il libro di partenza, Deception (Inganno), pubblicato nel 1990, è un’aperta sfida anche al lettore con i suoi magmatici, torrenziali e ricercati dialoghi su sentimento, coppia, sesso, letteratura. E l’immancabile spruzzata di ebraismo che in Roth tutto condisce e innerva.
Di suo, Desplechin ci mette una divisione in capitoli assente nel romanzo e l’eleganza della regia, a volte invisibile a volte più esplicita. Come nello split screen iniziale, che è già epitome di una scissione che prosegue per tutto il film e diventa palese nel segmento con la moglie, con Philip che si arrabatta a discutere sulla consistenza di un fantasma: donna reale, donna vagheggiata, donna come idea platonica da cui far discendere e in cui far annegare le contraddizioni interiori di un uomo che non sa quale barbaglio seguire. “Se scrivo autobiografia dicono che faccio letteratura; se scrivo letteratura dicono che faccio autobiografia”: il groviglio non si può sciogliere, e dunque certamente non può essere sciolto da chi guarda (e nulla ci impedisce di considerare tutto come un sogno di Philip: proprio come avviene nella sapida sequenza del processo incentrato sui suoi libri e in particolare su La mia vita di uomo (da Roth pubblicato nel 1974), acutamente anticipata dal dialogo su Kafka – lo scrittore praghese è visibile anche in un ritratto nella stanza del protagonista – con l’ex studentessa interpretata da Rebecca Marder).
Ennesimo pastiche in cui è possibile tanto assaporare la libertà dell’arte quanto riconoscerne la distanza dalla vita proprio mentre la prima è impregnata della seconda in un modo tanto profondo che non si sa come farne a meno, Tromperie tiene soprattutto a rammentarci la nostra fragilità di fronte alla verità. E se è possibile che non ci riconosciamo, che non ci scorgiamo ritratti, qualcosa ugualmente rimane che ha a che fare e che risuona con noi. Tornano in mente Bergman e le sue Scene da un Matrimonio, quando Erland Josephson per le proprie ambizioni letterarie trovava più conforto in una collega che nella moglie. Ma tutto è in una dimensione più pensosa, aperta, riflessiva e difficile (le sequenze con la Devos) e talora anche giocosa, come accade nel miglior Roth (oltre allo scontro con lo scrittore ceco, si pensi al momento in cui Philip rifiuta di dare il nome dell’alter ego Nathan Zuckerman al suo “personaggio” nel taccuino). Forse questa libertà di registri e compiacimenti può disorientare e stancare. Ma come è costretta a confessare la musa Léa Seydoux, alla fine di questa recita è tutto “così tenero”. Miglior prova di come il film sia intimamente rothiano, credo non ce ne possa essere.
(1) Non ho visto Lezioni d’amore (2008), con Penelope Cruz, tratto dal magnifico L’animale morente: ma concedetemi un pizzico di scetticismo.
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