Oltre la cinebiografia, l’inafferrabilità di una vita.
Un film biografico su un artista presenta sempre molte insidie: cedere alla rappresentazione della maledizione dell’arte oppure non riuscire a forzare l’interpretazione dell’uomo oltre la letteralità delle sue opere, rappresentano due maniere eguali e contrarie di fallire, come un’infinità di biopic precedenti ci hanno dimostrato (tra gli ultimi, sonoramente, La Teoria del Tutto).
Da questo assunto deve essere partito Mike Leigh per il lungamente vagheggiato (insieme al suo direttore della fotografia Dick Pope) lavoro sulla figura e sulla personalità di Joseph Mallord William Turner, eccentrico genio della pittura inglese che, a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, ha rivoluzionato la visione della natura attraverso lo studio della luce naturale e l’uso spregiudicato del colore. La sequenza iniziale di Turner è un lento e calcolato carrello che, vedendo approssimarsi due ciarliere contadine all’alba, termina col palesarsi della tozza figura del pittore già cinquantenne, infervorato a schizzare disegni con lo sguardo che scivola dal taccuino allo spettacolo di luce che ha di fronte: un modo di abbracciare il creato e insieme di avvalorare una scelta, ossia quella di suggerire l’estraneità al contingente dell’artista, in nome di una tempra rivolta strenuamente verso l’ideale e il metafisico.
Tutto Turner (ma il titolo originale Mr. Turner è più eloquente, nel suo riferimento all’uomo e al “borghese” Turner) ha un’inclinazione al religioso, che filtra attraverso l’impurità dell’umano e delle relazioni intessute, in qualche misura persino suo malgrado, dal pittore. Ne è affidabile specchio la sequenza della visita della petulante madre delle sue figlie, durante la quale l’artista continua a lavorare ben assecondato dalla bonaria e complice figura paterna. Non c’è abbastanza spazio per la banalità del domestico; le sole “distrazioni” possibili da una vita ripiegata su di sé e perennemente alla ricerca di una forma oltre le forme, sono quelle corporali e carnali, vissute come accidenti, impulsi irrefrenabili e congeniti, come i raptus con cui l’artista abusa della donna di servizio. Certo, Turner può anche cadere in abbandoni inattesi e lacrimosi ascoltando la Patetica di Beethoven, e osare persino sorprendenti gorgheggi sulle note del Lamento di Didone di Purcell. Ma è un istante, un’incrinatura momentanea, che ha un contrappeso nella visita al bordello, allorché l’uomo antepone alla lascivia l’urgenza di disegnare alcuni schizzi della giovane prostituta.
L’approccio intelligente e accorto di Leigh consiste soprattutto nel non calcare molto la mano sulle scene madri, benché la bizzarra condotta e umanità di Turner quasi lo pretendano (si veda la più che plateale scena in cui “rovina” un dipinto davanti a facce e commenti sbigottiti); a prezzo di qualche sottolineatura del banale e di un soffio di retorica dell’abietto, l’artista è ossessivo senza mai sembrare succube dell’ossessione. Non c’è mai l’impressione dell’agiografia, e neppure di uno sdegnoso rifugio nel sublime. Gli appetiti sensuali, i mugugni e i borbottii di Turner, che la mimesi di Timothy Spall rende proverbiali, tengono a distanza da qualsiasi santificazione e amplificano semmai l’umano troppo umano, con un effetto “spoetizzante” che annulla le insidie peggiori del genere biografico. La commozione trapela raramente, come nella sequenza della morte del padre, ed è questione di attimi, secondi che sono minuscole schegge di vita registrate ineluttabilmente dalla macchina da presa. Forse è proprio questo ad attrarre tanto Turner nelle due emblematiche sequenze del dagherrotipo: la possibilità di fermare i momenti, di dare loro una forma in qualche modo stabile, a dispetto della mutevolezza incessante che egli scorge nella luce, nel colore e nel loro disegno della realtà come crediamo di conoscerla. Lo spavento iniziale cede il passo alla fascinazione dell’istante puro, dipinta sul suo volto come un ghigno.
Turner vive quindi di una doppia scommessa: quella del pittore di liberare la forma autentica dietro le cortine costruite dalla luce e quella in buona parte riuscita del regista di sfrondare l’esornativo dal genere della cinebiografia. Ma con una qualità ulteriore, ossia avere rinunciato in partenza a ritrarre lo “spirito dell’epoca”. Turner – il personaggio e il film – rappresenta infatti solamente se stesso, e ogni tentativo di leggere l’opera di Leigh come un compendio del passaggio di un mondo dall’illuminismo al romanticismo (lettura che i dati biografici del pittore inglese e la vulgata autorizzerebbero) suona come una forzatura. Antistoricistico perché rigorosamente concentrato sull’esistenza intima e inafferrabile dell’artista, che rimane paradossalmente tale anche nelle occasioni pubbliche, Turner prende con eleganza le distanze dal senso del vivere dell’epoca vittoriana, ben rappresentato dal critico John Ruskin in una delle scene più significative; e se infine il significato del film può sembrar risuonare in una singola inquadratura e in un’esclamazione in punto di morte (“The Sun is God”, il Sole è Dio), non è così, non può essere così, per il senso di una vita. A Leigh il merito di averlo compreso e saputo esprimere in piena continuità con tutta la sua filmografia.
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