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TWIN PEAKS

TWIN PEAKS

Twin Peaks foto1

Benvenuti a Twin Peaks (o del nastro di Moebius audiovisivo).

Depositate le polveri del fracasso mediatico, torniamo a visitare la cittadina situata in qualche punto inesplorato della mente di David Lynch, proprio quando i Cahiers du Cinema lanciano la loro provocazione, inserendo Twin Peaks 3 tra i migliori film del 2017. Fra reazioni esagerate (alcuni critici si sono addirittura indignati) e indifferenza, forse si è cronologicamente creata però la “giusta distanza” per poter parlare in maniera imparziale di quello che certamente è stato un evento massmediologico e di cultura dell’audiovisivo.
L’antefatto e le premesse necessarie
Sanno anche le pietre che le prime due stagioni di Twin Peaks, andate in onda in Italia su Canale 5 nel 1992, sono state il punto di svolta che ha anticipato il Nuovo Millennio, cambiando il modo di fare televisione all’interno della televisione stessa. E certamente, da questa terza stagione non ci si poteva – anche se a monte neanche si doveva – aspettare lo stesso, né tantomeno credere che questa nuova opera del regista di Missoula potesse avere lo stesso impatto dirompente che ebbe venticinque anni fa. Non è perciò questo l’aspetto rilevante, non è questo ciò che ad ogni modo alla fine ha reso Twin Peaks 3 l’evento che è stato. Sembra fuori moda, o fuori luogo oggi, in mezzo a tanti capolavori urlati e/o spacciati come tali, dire che il serial è stato un evento per la qualità dell’opera stessa messa in scena?
Das Unheimliche
Ormai tutti sanno che Twin Peaks è una (fittizia) cittadina dello stato di Washington, in cui vivono e lavorano tranquille persone dalle vite e vicende più o meno intricate. Improvvisamente, nel 1991, questa calma viene turbata dall’assassinio di Laura Palmer, studentessa del liceo locale. Come un’onda, una macchia d’olio, questo assassinio investe ogni singolo cittadino. E come un’onda non si propaga non solo nello spazio, ma anche nel tempo: 25 anni dopo le vicende di Twin Peaks ne sono investiti ancora gli abitanti e gli spettatori della serie.
25 anni dopo ci (ri)addormentiamo e ci (ri)troviamo nella loggia nera in cui Cooper rimase imprigionato. L’agente trova qui il suo doppio – doppelganger – la copia spettrale della sua persona. Il doppelganger è connesso al perturbante (Das Unheimliche in tedesco), aggettivo sostantivato che fa riferimento ad un sentimento di angoscia e paura che si avverte quando qualcosa di familiare viene sentito come estraneo nello stesso tempo; e unheimliche etimologicamente è il contrario di heimliche, tranquillo, fidato, intimo, appartenente alla casa. La mitologia di Twin Peaks è quindi tutta costruita intorno al perturbante: ciò che è familiare è estraneo e viceversa, nel realizzarsi di un principio di non contraddizione che è tipico dell’inconscio. È in casa che Laura Palmer incontra Bob, personificazione di pulsioni primitive forti e incontrollate, unione di Eros e Thanatos. Bob è un fantasma, è il fantasma dell’Edipo (incarna l’eros paterno) che si realizza, e per questo diventa inquietante, psicotico, reale, alla fine per questo – forse – concreto. La relazione edipica, come testimoniato dalla sua presenza nella tragedia greca prima e shakespeariana poi, è una dimensione fantasmatica tipica del nostro inconscio, transpersonale, la cui esistenza si perde nella notte dei tempi; ma per non far sì che diventi mortifera, che non faccia impazzire, non deve mai realizzarsi, ossia deve rimanere nella dimensione del fantasma.
Il Sognatore
La Loggia Nera poi si configura come la dimensione dell’inconscio; è da lì che Bob – nome palindromo, principio di non contraddizione, doppio di se stesso – proviene, da una congerie di immagini e fantasmi che popolano lo spazio inconscio. Questo spazio non è “l’inconscio di”, ma L’Inc della seconda topica freudiana, che ospita pulsioni feroci e loro contrari, grumi indistinguibili e indistricabili di emozioni non digerite e non arrivate alla coscienza; non è quindi inconscio come prodotto di rimozione, ma è tutto quanto ciò che c’è di primitivo e istintuale insito nella natura umana, impasto pulsionale di Eros e Thanatos. Ricordano la garmonbozia, pappone indigerito che compare in Fuoco Cammina Con Me (film imploso ed esploso, che incredibilmente solo oggi, a ritroso, si dimostra più grande, più complesso e più bello di come poteva sembrare e come era sembrato agli spettatori distratti e occasionali del tempo) come in Twin Peaks 3, ora come sangue, ora come pasta di mais, ora come vomito, materia cerebrale: è dolore indigeribile, è un’emozione che non diventa pensiero, un grumo emotivo non passibile di elaborazione e di contenimento. La struttura narrativa di questo ritorno a Twin Peaks somiglia molto alla scena onirica: distinguiamo un contenuto manifesto – la scena, i suoi simboli – ed un contenuto latente – i pensieri e soprattutto le emozioni che l’hanno prodotta. Proprio come nei sogni, spesso non riusciamo ad identificare una “storia”, ma ci limitiamo a raccontarne i pezzi, attribuendo quello che per noi – ma solo per noi! – è un senso.
Il senso è qualcosa di non dato, forse non esiste, e comunque non esiste in maniera univoca e uguale per tutti.
L’universo di David Lynch è popolato da una molteplicità di simboli, alcuni tipici altri completamente nuovi; ma ciò che rende suggestiva e attraente questo Ritorno è la potenza evocativa di ciascuno di questi simboli.
Spartiacque, la 3.08: è lì che assistiamo alla nascita di Bob, nell’esplosione dell’atomica, simbolo universale della distruttività umana che cessa di essere fantasma e diventa fatto. Distruttività intesa come Thanatos, istinto di morte, coazione a ritornare ad uno stato inorganico. Ma ad essa si contrappone Eros, istinto di vita, vitalità primigenia e forza generatrice: è la sfera che contiene l’effigie di Laura Palmer, inviata sulla Terra per contrastare ciò che di male si è sprigionato.
L’essenza è l’eterna lotta di bene e male, mostrando però come essi siano compenetrati, due facce della stessa medaglia, impastati; si tratta di trovare un equilibrio non dato, e di trovarlo sempre, di volta in volta, e mai in maniera definitiva. In Twin Peaks spesso c’è un richiamo agli opposti pressoché continuo: bianco e nero nella loggia, Cooper e Cooper, l’uomo da un braccio solo e il braccio, Bob e Laura; tutti casi in cui la “e” congiunzione potrebbe del resto essere sostituita da una “è” predicato.
L’intera stagione di Twin Peaks 3 è costruita in definitiva come un sogno: i simboli scorrono sulla scena, ed assumono un significato diverso a seconda della mente che li ha prodotti. Ogni puntata è un sogno (o potrebbe esserlo), il sogno di tanti sognatori quanti sono gli spettatori, tanti sogni diversi, con simboli condivisi. Per dirla con le parole della suggestiva Monica Bellucci: “Siamo come il sognatore che sogna e vive dentro un sogno: ma chi sta sognando chi?”
La Conclusione
Twin Peaks 3, in definitiva, è il vero Twin Peaks di David Lynch. Che se nelle prime due stagioni aveva collaborato a stretto contatto con Mark Frost (la sua mente mainstream, per così dire e semplificare), ora è libero di far correre la sua mente lungo i sentieri oscuri dei boschi della provincia americana, risalendo via via fino all’origine del Male e del Bene, al loro senso e al loro non-senso. E riversando questa sua garmonbozia sullo schermo, in un’operazione forse mai vista prima: un serial lungo, lunghissimo (18 puntate oggi sono un traguardo, contro serie che possono contare su uno svolgimento lungo “solo” 6 o tutt’al più 12 puntate), in prima serata, su un canale a pagamento sì, ma generalista come l’Atlantic di Sky; ma un serial che, incredibilmente di questi tempi, diventa una vera e propria sfida allo spettatore, un enigma affascinante da sciogliere, una digressione folle ma lucidissima che segue solo e soltanto – o almeno sembra – gli equilibri psichici del suo creatore, sbeffeggiando ogni bisogno di avere segnali riconoscibili, paletti logici, segmenti narrativi secondo binari consueti. Sarà forse per questo che Inland Empire è l’ultimo, ad oggi, progetto per il grande schermo di David Lynch, e probabilmente lo rimarrà, se si guarda ad un mercato produttivo e distributivo sempre più caotico ma sempre più “allineato” e soffocante, un imbuto che setaccia ed esclude ogni traccia di soggettivismo. Ed è sicuramente per questo che il genio di Lynch si confà perfettamente alla narrazione seriale (post)moderna, che d’altronde lui stesso ha contribuito a creare proprio con il suo Twin Peaks del ’92, una narrazione senza limiti di tempo e senza le catene di una distribuzione.
Perde quindi di senso ciò che si accennava in apertura. Quegli stessi critici che oggi sbeffeggiano ed osteggiano l’inserimento (provocatorio, naturalmente) di Twin Peaks 3 nei migliori film del 2017 sono gli stessi che, qualche mese fa sulla Croisette, accusavano Almodovar di essere paludato quando, nella polemica innescata da Netflix, il regista iberico si diceva contrario al “cinema prodotto dalla e per la tv”, perché un film nasce ontologicamente legato al grande schermo e alla sua fruizione. I limiti dell’audiovisivo, della sua cultura, della sua diffusione, oggi non sono più legati al cinema e alla sala: insospettabilmente rispetto a quanto pensato anni fa, il cinema si è espanso in altre piattaforme e va rivista la sua stessa concezione di fruizione, ma non certo di creazione.
E per finire anche noi.
Non poteva concludersi in altro modo di come si è in effetti concluso, Twin Peaks 3: con un doppio twist narrativo e semantico, perché c’è un primo finale con la 3.17, in cui più o meno la narrazione ricongiunge i punti lasciati in sospeso e dedica, a tutti coloro che hanno bisogno di una logica, un finale che è quanto di più vicino all’happy end che si può pretendere da Lynch. C’è poi il secondo finale, quello della 3.18, quello vero e profondamente lynchiano: un finale che sembra un nastro di Moebius che si riavvolge su sé stesso negandosi e affermandosi continuamente, alternativamente. E che si ricongiunge quasi poeticamente a quelle prime immagini di 25 anni fa, quando “il sogno” iniziava, per distruggerle e crearne delle nuove.
In una nascita che non poteva che iniziare con un urlo.

(si ringrazia la dott.ssa Francesca Franzì per la collaborazione)

voto_5

Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.