Sign In

Lost Password

Sign In

UNA VITA – UNE VIE

UNA VITA – UNE VIE

Une Vie foto1

Una questione di forma.

Come spesso accade per i grandi film (e ci sono pochi dubbi che il nuovo lavoro di Stéphane Brizé lo sia), la grandezza è una questione di forma, di linguaggio e messa in scena, di grammatica delle immagini e delle inquadrature. Provo a ragionarci sulla base delle due proiezioni del film a cui ho assistito ben sapendo che a rivederli, film come questi, si rivelano ogni volta più ricchi e stratificati, e quindi una terza visione potrebbe mostrare altri meccanismi che rendono più articolato il discorso.

Guardiamo dunque il film da vicino: e subito notiamo che rari sono i totali che la regia di Brizé, nelle due ore di durata di Une Vie, si permette di esibire. I personaggi del film, a cominciare proprio da Jeanne, hanno poche inquadrature frontali, sono invece colti quasi sempre di taglio, di lato, di profilo, con angoli stretti e senza mostrarne la figura intera (fondamentale in questo la camera a mano). Non è, come si potrebbe credere, soltanto una conseguenza del formato 4:3 scelto per l’intera durata, si tratta di decisioni di ripresa che hanno consapevolmente a che fare con una poetica. Che è come dire con una morale, sempre all’opera nei film di Brizé. Jeanne, il marito, il figlio, il padre e la madre di Jeanne, i loro amici e contemporanei, vengono spesso isolati e sacrificati nelle inquadrature perché la loro storia e il loro destino non si possono raccontare né indovinare in uno sguardo d’insieme, e perché ognuno di loro è solo e in definitiva, singolarmente preso, un mistero così sfaccettato da diventare del tutto irrisolvibile. Il rigetto dell’inquadratura frontale e del totale è così una scelta espressiva al servizio di una visione pessimistica dell’esistenza umana.

Ciò detto, mi sembra chiaro il significato ultimo di Une Vie. Non si conoscono la verità delle anime, le passioni, gli andirivieni del desiderio e del cuore, il senso della vita: il film lo mette in evidenza da subito e l’autore preferisce stare un passo indietro e limitarsi a osservare. La visuale di un narratore, di qualsiasi narratore e testimone, è angusta e – senza adeguate punteggiatura e sintassi – rischia di risolversi in arbitrio totale o interferenza. Perché Jeanne continua a credere disperatamente nel figlio inetto emigrato in Inghilterra? Possiamo solo fare supposizioni, e anche se lei stessa ce lo dicesse (ma non lo fa) ci rimarrebbe il dubbio sulla veridicità di quanto afferma. Prendiamo anche il momento in cui Jeanne scopre, dopo la morte della madre, l’esistenza di lettere appassionate indirizzate alla genitrice da un amante. La rivelazione è per lei così sorprendente che rimane come inebetita e preferisce occultarle. Ognuno è solo nel suo monologo, nel suo campo nel quale soltanto a tratti, incidentalmente e in modo instabile, entrano gli altri, dei quali nulla si può con certezza affermare. Una consapevolezza della propria tragedia che forse la protagonista non possiede – benché nella sconvolgente scena che segue alla rivelazione dell’adulterio del marito ne sia violentemente investita – e che in tutta la sua parabola esistenziale pare mancarle, per finire invece (ma è inevitabile) trasportata dagli eventi e non dalla sua volontà.

L’altro asse portante del film è il tempo, come un po’ tutti i critici hanno sottolineato. Tempo che è all’opera nella frantumazione che le varie ellissi portano con sé (creando un fecondo spaesamento), ma anche nell’indeterminatezza degli anni in cui si svolge il film: almeno nella prima parte, che lascia tutto molto sfumato. Anche in questo, un raffinato procedimento stilistico consegue l’effetto di spezzare le resistenze dello spettatore, che da un film in costume tende ad aspettarsi automatismi assai vetusti (in parte per la “pigrizia” di chi crede che il passato sia un orto ben arato e conosciuto, in parte per le molte riduzioni letterarie inerti viste negli ultimi decenni di cinema). L’inquietudine che la visione di Une Vie produce è soprattutto frutto di queste infrazioni alle regole. Né vi sono consolazioni di altro tipo come la religione: le figure ecclesiastiche si mostrano conformiste (il prete che vuole evitare lo scandalo e incoraggia l’ipocrisia di una riconciliazione solo apparente tra i coniugi) o rigidamente moraliste (il giovane sacerdote che è di fatto il “mandante” della vendetta passionale). Non ci sono appigli, anche se il film chiude su una nota meno cupa, su una speranza per il futuro.
Brizé non giudica, ma neppure rimane impassibile (il pianoforte, sia pure di rado e con discrezione, commenta pateticamente le vicissitudini di Jeanne), non fabbrica verità di comodo o d’imperio. Anche per questo, Une Vie è così contemporaneo pur parlando di un mondo – quello della declinante aristocrazia francese dell’Ottocento – che ci appare storicamente così lontano.

voto_5

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.