Spaesamento, ermetismo e lontananza.
Christian Petzold sta lavorando da diversi anni a far riemergere un cinema d’autore tedesco che dialoghi con il presente e lo spirito del tempo (anche e forse soprattutto cinematografico) e non ne sia travolto. Undine – Un amore per sempre appare in questo senso un anello singolare nel dialogo con la tradizione del mélo europeo: il mito germanico si salda con una linea continua che da Jean Vigo (L’Atalante è citato quasi letteralmente, in modo non proprio sorprendente) arriva a Pedro Almodovar e François Ozon (Paula Beer, nuova attrice feticcio, è anche la protagonista di uno dei film migliori del regista francese, Frantz).
È un procedimento che ha una sua fisicità, un’incarnazione, è il mito che si cala nella Storia. La vicenda di Undine, leggendaria ninfa destinata ad essere tutto accanto ad un uomo e nulla senza di lui, descrive questa parabola. Una parabola amorosa. Didattico come non era stato spesso in precedenza, Petzold fa della mitologica creatura una laureata in storia intenta a raccontare le origini di Berlino e le trasformazioni della città ai visitatori: per un necessario radicamento geografico, una definizione di sé e di dove si è prima ancora di dove andare. Non è casuale che Undine a un certo punto del percorso guidato chieda a qualcuno se sa indicare l’esatta posizione dove si trovano in quel momento.
I fantasmi e la loro permanenza nel tempo, la volatilità dell’amore, il dialogo col cinema del passato (come riferimenti di Undine, il regista cita anche Unter den Brücken di Helmut Käutner e Il mostro della Laguna Nera): uno dietro l’altro è facile in quest’opera allineare i temi che sono cari a Petzold e prendere nota della precisione con cui si incastonano come petali di una corolla nel corpo del film. L’accuratezza con cui il cineasta tesse la sua tela è inscritta in un compiacimento rarefatto e non tanto dissimulato, che punta sì a far perdere le coordinate – come i precedenti Phoenix e Transit, che si snodavano intorno al non detto e all’attesa – e ciononostante si avvale di un incedere imperniato su una geometria predeterminata, anche se sempre protesa verso i punti di rottura del racconto.
A dispetto della sua coltre di favola romantica crudele e a volte leziosa, Undine non ammonisce e non libera, rimane fisso, non ha una morale superiore da suggerire (e un po’ si ammira anche per questo); sospeso nell’indecidibilità, l’ordito è altresì inafferrabile come Undine, preciso e addirittura simmetrico, ma scostante. Nella sua costruzione che vuole essere astrattamente sentimentale, si fa forte di un atteggiamento autoritario ed esigente molto più che poetico, e quel che altrove si applaude come riconoscibilità di un autore che sa come ottenere un effetto di spaesamento produttivo qui risuona in alcuni frangenti come esibito ermetismo, nella forma di un rifiuto a lasciarsi cogliere dall’intuizione oltre che dalla logica. Non significa che dobbiamo per forza reagire con freddezza o fastidio alla sua lontananza: Undine avrà infine un suo posto nel corpus autoriale di Petzold, pure se fosse quello di una divagazione intelligente e un tantino blasé verso chi osserva.
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