A festival ormai concluso, è sempre più luminoso il piccolo miracolo che ha fatto Barbera, dopo i tanti errori dell’era Muller: riportare il Lido agli antichi fasti, aprirlo e smettere di farlo essere una riserva indiana per i pochi addetti ai lavori. Il cinema che passava alla Mostra più raffinata e attesa del mondo del cinema era un cinema fin troppo elitario, chiuso negli steccati del più ostico “film d’autore” dove l’etichetta sembrava siglare un accordo tacito per cui se il film non aveva le stimmate autoriali (vai a vedere quali sono, poi) non era per il Festival. Barbera ha avuto invece l’intelligenza e l’intuizione di aprirsi al cinema tout court, riprendendo sotto la sua sapiente ala tutte le forme espressive dell’immaginario audiovisivo: ed ecco allora che sono sbarcati, stanno sbarcando e sbarcheranno le serie tv, i generi con tutti i loro fasti, la realtà virtuale, i documentari, l’animazione. Basta dare un occhio alle sezioni di quest’anno per rendersene conto; e basti dire qui che due fra i migliori film visti nella selezione principale sono un horror fantasy gotico e un thriller musical napoletano.
UNA FAMIGLIA
Maria (nomen omen) è sposata con Vincenzo: i due, legati da una grande passione, sono anche uniti da un oscuro segreto, perché Vincenzo costringe Maria a rimanere incinta per vendere i propri figli. Ma qualcosa un giorno s’inceppa: Maria non vuole più, cerca in tutti i bambini che vede i suoi figli persi, utilizza di nascosto dal marito mezzi anticoncezionali. Una coppia di acquirenti “delusa” li raggiungerà e darà il via ad un escalation di dolore e rovina.
Riso aveva già collaborato con la bella e brava Micaela nel suo film d’esordio, Più Buio Di Mezzanotte, dove era la mamma di un ragazzo transgender (da una storia dolorosamente vera); torna a farlo con questo Una Famiglia, continuando a parlare di storie vere e continuando a trattare il tema, poco visitato dal cinema italiano, del mercato nero delle adozioni.
Qualche giorno fa mettevamo in dubbio che la violenza (esibita, gratuita, parossistica e metaforica) di Brawl in Cell Block 99 potesse essere la più sconvolgente di questa Mostra: e con il film di Riso abbiamo la conferma.
La storia di Maria tocca con delicatezza un tema così forte con sequenze di brutalità tanto oscena da risultare, a tratti, insostenibili: sono i dettagli a spaventare nella storia di Riso, i primissimi piani sulle unghie martoriate della protagonista, i suoi occhi tracimanti d’angoscia, lo sguardo basso e inespressivo di un padre padrone che rinnega non tanto la sua paternità quanto l’emotività che questo comporta. È insomma tutta quell’umanità dolente e dolorosa al centro di un mercato tanto sordido quanto purtroppo reale: ancora più agghiacciante se si pensa a tutto quello che lo ha creato. Una legislazione bislacca, parametri etici ed economici sbagliati, insomma un Paese alla deriva che nega la genitorialità nella maniera più atroce e crea invece i presupposti per crimini tanto aberranti quanto inestinguibili.
Riso ha il dono della “regia invisibile” (tranne qualche mdp a spalla di troppo), non insegue i personaggi e non li coccola: li ingabbia invece in quadri soffocanti illuminati da una luce fredda e grigia, e la bravura degli attori fa il resto. Ma soprattutto ha il coraggio di parlare a voce alta, da un palcoscenico privilegiato come quello del Lido, di problemi irrisolti e nascosti, mostrando immagini che ognuno decide coscientemente di non vedere.
Una Famiglia non specifica di quale “famiglia” parli il titolo: se quella della coppia al centro della storia, che vende i propri figli per denaro, o quella degli attori omosessuali che alla fine il figlio non lo “comprano” perché è malato di cuore, o quello dei quarantenni che spendono milioni di euro per aggirare la legge, o ancora quella composta, sul finale, dalla sola Maria che raccoglie il figlio dalla spazzatura dove il compagno l’aveva gettato e decide di riappropriarsi della sua vita e del suo diritto di essere madre.
Straordinario, pur se solo in poche battute, Ennio Fantastichini, gay con l’insopprimibile voglia di un figlio: “Non posso prendere questo bambino morente: alla mia età, da un dolore così non mi riprenderei mai più”.
MOTHER!
Che Aronofsky non sia un regista facile ai compromessi e alle scelte di comodo era già ben noto fin dalle sue prime prove (dal Teorema Del Delirio a Requiem For a Dream): un talento abnorme al servizio di un’ambizione autoriale smisurata, entrambi perfezionati e gonfiati man mano che la sua filmografia – spesso protagonista al Lido – procedeva producendo opere sempre più complesse, sempre meno ancorate ad un senso della logica che ormai sfugge.
Mother! era uno dei film più misteriosi e attesi della selezione ufficiale, e non ha tradito le aspettative, almeno per chi aspettava un film fortemente personale e fuori dagli schemi: un film, un’opera, un testo pieno di sottotesti e così enorme che però sfugge al controllo sia dello spettatore sia dell’autore.
Se Aronofsky ha sempre frugato tra le pieghe dell’inconscio (“più si scava nel nostro buio interiore più vediamo la luce”, sono parole sue), inserendo nelle sue storie frammenti, segmenti onirici che travolgevano lentamente la trama, con Mother! si spinge ancora più in là, perché tutto il film è un’immensa allegoria così potente e allargata da poter comprendere ogni tipo di interpretazione, declinato di volta in volta a seconda del punto di vista da cui lo si osserva.
Marito e moglie – Javier Bardem e Jennifer Lawrence, che non hanno un nome nel film, come nessun protagonista del film – vivono in una grande casa al centro della campagna, e la loro vita viene sconvolta quando alla loro porta bussano un medico e sua moglie (Ed Harris e Michelle Pfeiffer), che lentamente si insinuano nella loro vita in un crescendo che sfocerà nel sangue, per lasciare il posto ad accadimenti imprevisti e sempre più grandi.
La creazione (dell’arte, della vita, della materia), l’amore (tra uomo e donna, tra madre e figlio, tra autore e spettatore); e ancora le nuove frontiere della celebrità e dell’informazione, il rapporto con gli altri e con sé stessi, la percezione di sé e del mondo; metafore che entrano in altre metafore, da quella religiosa (c’è la Bibbia, nell’unica didascalia iniziale, e i doni per il profeta) a quella artistica, a quella letteraria: e intanto Mother! procede a balzi nelle geografie oscillanti e fluide dell’onirico, rivoltando la trama ad ogni angolo e frammentandola su tante strade. Mentre la regia di Aronofsky, conscio del magma ribollente che sta trattando, si fa claustrofobica e minuziosamente attenta al dettaglio e ai personaggi (è un film di primissimi piani, Mother!, che sembra classico nell’utilizzo della forma ma si spezza e si segmenta nella sperimentazione narrativa più libera) la casa/alcova/paradiso rinasce e marcisce, ospitando un andirivieni di personaggi e situazioni che sembrano mirare a voler ritrarre la dimensione più intima della Donna e invece poi si apre insospettabilmente ad un flusso surreale incontrollato.
Mother! risulta alla fine così denso di eventi e riferimenti, sottotesti e significati, immagini e rumori, da ingoiare le eccezionali prestazioni di tutto il cast, asservito ad un impianto metaforico stracolmo, tra la casa che diventa il corpo, lo scantinato buio come l’inconscio, il diamante che prende su di sé il senso dell’ispirazione artistica e poi diventa la purezza… Aronofsky non si cura, e forse neanche dovrebbe, di provocare un senso di disagio nello spettatore, lasciato in balia del racconto senza una sottolineatura musicale ad accompagnarlo per indicargli lo stato d’animo del film e quindi suo; addirittura, gioca a rinnegare il senso del titolo (la maternità è solo uno dei tanti, e forse neanche il più forte, dei significati, se non in senso letterario), ma riesce a creare una ragnatela demoniaca che ritrae la confusione dell’attualità con tutta la sua difficoltà di amare, definendo una volta per tutte il suo universo cinematografico, tattile e materico sempre pronto a trasformarsi, anzi ad essere, (pre)visione onirica.
Ed è in questo senso, ma anche per le sue suggestioni visive, emotive e narrative, che oggi più che mai Mother! risulta un’opera necessaria, che prende vita ad ogni visione mentre chi guarda di volta in volta contribuisce interattivamente alla costruzione di (un) senso.
Bellissimo.
AMMORE E MALAVITA
Noi l’abbiamo sempre saputo, di cosa erano capaci i Manetti.
Forse non proprio con Zora La Vampira (in questo c’ha visto lungo Carlo Verdone, che il film l’ha prodotto e ci ha pure recitato), ma subito dopo con Piano 17 è stato chiaro che eravamo davanti a due registi, anzi a due autori, di grande talento, ingiustamente trascurati dall’industria.
Storie ad orologeria (Piano 17, appunto), immaginario cinematografico un po’ naif e un po’ kitsch (Paura 3D) ma sempre preciso e appassionato, personaggi a tutto tondo che dalla macchietta riuscivano a tirare fuori l’emozione; e poi al Lido, nella sezione collaterale più sperimentale, quell’Arrivo di Wang che apriva alla fantascienza all’italiana (ma in pochi se ne sono accorti, in tanti l’hanno dimenticato). Song’e Napule aveva fatto scattare qualche campanello d’allarme, ma ora Ammore e Malavita è arrivato per confermare il talento anarchico e liberatorio di questi due fratelli che tanto vicini sembrano ai Coen, altri protagonisti a questa Venezia 74 insieme alla loro sceneggiatura per il capolavoro di Clooney, Suburbicon.
Anarchici, si: perché loro usano il genere (e anche la tv, se è per questo) per infilarci dentro la loro passione tutta mediterranea per un cinema fatto di carne e sangue, attori ed emozione, senza preoccuparsi di abbondare con i cliché – se servono, li usano e li rendono belli – né tantomeno dei canoni tradizionali del racconto. Qui infatti siamo davanti ad una simil sceneggiata-thriller-dramma che non rispetta le regole di nessuno di questi generi eppure tutti li contiene e tutti li abbellisce. Eppure nel cuore Ammore e Malavita è, a tutti gli effetti, un musical napoletano, dove gli attori mentre recitano iniziano a cantare: Pivio & Aldo De Scalzi scrivono testi e musiche, Luca Tommassini (uno dei nostri talenti più grandi osannato all’estero) cura le coreografie dei balletti, ai Manetti non resta che dirigere una storia che pure se non porta a compimento ogni risvolto narrativo, nonostante qualche sbavatura riesce anzi a trasformare i suoi difetti in punti di forza. Serviti benissimo da un cast eccellente. Da Gianpaolo Morelli, che solo loro riescono a trasformare in un attore vero, a Carlo Buccirosso e Claudia Gerini, coppia esplosiva, giù giù fino a tutti coloro che compongono questo ritratto sulfureo e divertito di Napoli, riuscendo a restituirne la realtà senza però – e qui sta l’intuizione più forte di base – cadere nel facilissimo e rischiosissimo canone documentaristico sull’argomento. Di Napoli, al cinema e non solo, tutti hanno voluto e a volte saputo raccontare qualcosa: i Manetti, romani, sanno dipingerne l’umanità e la vita più vera senza mai scavare nel pietismo, senza mai concedere nulla alla tristezza. Ammore e Malavita è un film profondamente d’autore non rinunciando alla sua vena più sinceramente pop, in mezzo ad un citazionismo divertente e sfrenato e portatore sano di un’idea di cinema (e di un Cinema) attraversata da stile, personalità e intelligenza.
Subito cultissimo.
BRUTTI E CATTIVI
L’opera prima di Cosimo Gomez, scenografo che esordisce a Venezia nel fuori concorso Orizzonti, sta tutta nello scarto etimologico con il quasi omonimo Brutti, Sporchi e Cattivi di Scola, dove la guerra fra i poveri non merita indignazioni populiste, e lo squallore endemico nella povertà non viene giustificato con quest’ultima. Gomez mette in scena una banda di poveracci deformi e senza futuro (Claudio Santamaria è Pollo, mendicante senza gambe; Sara Serraiocco sua moglie ballerina senza braccia, Marco D’Amore un rasta tossico) che ideano un piano apparentemente semplice e geniale per rubare da una banca quattro milioni di euro. Senza però prevedere né che la banca è un usuale rifugio di “soldi sporchi” della mafia cinese, né che ognuno della banda ha un piano personale per fregare gli altri. Se quindi nel film di Scola il marcio era fenomenico ed insito nella natura umana, qui i protagonisti, afflitti da povertà e deformità, sono borderline che riescono però, nonostante tutto, a conservare dei sogni che possano garantirgli quel futuro che il mondo civile sembra aver loro negato, chiusi come sono in steccati politically correct che si riveleranno, anch’essi, falsi e bugiardi (come il prete africano della parrocchia dei diseredati). Il film di Gomez ha un’idea di messa in scena abbastanza inusuale, miscelando colori saturi ed irreali ad ambientazioni anch’esse stranianti al limite del perturbante: non è un caso che la storia si svolga nei nuovi quartieri fuori dal Raccordo Anulare, che immergono e completano quest’umanità brillocca e derelitta che però riesce ancora a trovare la forza di sognare. E contribuendo a restituire un quadro gustoso e divertito, che non si preoccupa di ridere con cattiveria accelerando sul grottesco ma senza risparmiare strizzatine d’occhio ad un sociale dimenticato, che viene però ritratto senza pietismi e fuori dai soliti canoni di genere.
Ed è proprio qui, nello stridìo fra l’assenza assoluta di morale – i protagonisti del film sono cattivi senza redenzione – e la ricerca spasmodica di giorni migliori, la dimensione dove meglio vive Brutti e Cattivi: che al contrario degli Sporchi di Scola non assume un occhio morale quando osserva, senza nessun piglio documentaristico, il futuro segnato dalla galera e dal dolore, bensì si fa divertito per una sorta di “livella della cattiveria” che imparenta quest’esordio fulminante con i migliori noir grotteschi di respiro internazionale, specialmente quando imbocca linee narrative alternate e scelte registiche imprevedibili.
THE TESTAMENT (AH EDUT)
Yoel, un ricercatore che studia l’Olocausto, è nel mezzo di una battaglia legale riguardo un brutale massacro di ebrei alla fine della Seconda Guerra Mondiale nel villaggio di Lensdorf, in Austria; e contemporaneamente, esaminando le testimonianze dei sopravvissuti all’Olocausto, ritrova scioccato una dichiarazione resa dalla madre di cui non sospettava l’esistenza, e che getta nuove ombre e luci sul suo io più profondo.
Uno dei temi più abusati, trattati e bistrattati dal cinema è proprio l’Olocausto, terreno emotivamente scivoloso e storicamente pericoloso. Questo mentre invece nella vita reale il negazionismo, con le sue assurde derive, continua a proliferare ed esistere: è anche per questi motivi che un film come The Testament è ancora oggi, nel 2017, importante, e necessario. Per come intreccia mirabilmente storia pubblica e vissuto privato, per come mette in primo piano la necessità della memoria, per come lotta strenuamente fino alla fine, e anche oltre, per conservare sé stessi e la propria identità al di là di ogni etichetta.
L’abilità straordinaria dell’esordiente Greenberg sta poi proprio nel saper unire insieme temi altissimi con uno stile asciutto, preciso, diretto, lineare, raccontando senza sbavature l’orrore dell’abisso che si apre quando scorgiamo, fuori e dentro di noi, ciò che di sfuggente, di innominato, resta dentro quando manca la nostra parte essenziale: il passato. Un urlo straziante, straziato e silenzioso per penetrare e attraversare i muri trasparenti del silenzio.
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