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VICE – L’UOMO NELL’OMBRA

VICE – L’UOMO NELL’OMBRA

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Il “vice” più nefasto della recente storia americana.

Dick Cheney è l’anima nera che sta dietro gli otto anni della presidenza di Bush jr., quel “poveretto”, come viene definito dalla moglie di Cheney non appena la sua candidatura è lanciata.

Vice – L’uomo nell’ombra dà per assodati gli antefatti cinematografici, da Fahrenheit 9/11 di Michael Moore a W. di Oliver Stone: l’uno con la sua demagogia e l’altro con una linearità insidiosa ma anche neutra avevano già raccontato la povertà intellettuale del presidente che si è dovuto confrontare con la tragedia dell’11 settembre e le sue conseguenze, istillando nel pubblico di tutto il mondo la consapevolezza che Cheney e Rumsfeld siano stati i veri burattinai della politica estera americana d’inizio millennio, con tutto ciò che questo comportava (legami con l’industria petrolifera in primis). Vice arriva buon ultimo e finisce col diventare quasi un’addizione degli atteggiamenti di fondo dei due film succitati: convenzionalità didascalica e predica ai già convertiti si sommano e ad Adam McKay, che dopo il successo di La grande scommessa è sempre più lanciato nel cinema d’impegno a stelle e strisce, non rimane che colorare con qualche colpo di stile e invenzione – a volte interessanti, altre volte meno – una storia che i democratici americani e non solo loro conoscono ormai piuttosto bene. A differenza che nel film precedente, McKay non si confronta infatti con un mondo come quello della finanza che ha bisogno di una traduzione per i non iniziati. Le faccende controverse e i panni sporchi della politica statunitense hanno già ampiamente attecchito anche fuori dagli USA e additare le responsabilità di Cheney al pubblico non ha proprio nulla di sorprendente. Tanto più che le origini della fortuna politica del futuro vicepresidente USA sono illustrate senza molta fantasia: dopo un fulmineo compendio delle peripezie giovanili di Dick, vediamo solo una scenata in cui Lynne (una Amy Adams che passa dai panni della donna tormentata e fuori fuoco di Sharp Objects a quelli di una moglie ambiziosa ma tradizionale che supporta il marito nella scalata al successo) fa promettere al suo compagno per la vita che la renderà fiera e le farà coronare il sogno piccolo borghese di essere importante. Un po’ sbrigativo, diciamolo: nel seguito del film, l’importanza di Lynne Cheney nella carriera del marito si vedrà soprattutto nel comizio che terrà al suo posto durante una di lui degenza in ospedale; mentre il dialogo shakespeariano a letto che i due imbastiscono dopo l’incontro tra Dick e Bush jr. sembra solo un pezzo di bravura fine a se stesso. Davvero poco per spiegare l’influenza della moglie o per capire qualcosa di più di Cheney stesso.

Certo, il film può far breccia nello spettatore già orientato che vede confermate tutte le tesi già espresse sul post 11 settembre, ma il punto dolente è anche quello: a chi serve davvero un film come Vice? Solo a chi non nutre dubbi sulla colpevolezza di Cheney e soci nell’aver portato l’America e il mondo verso una guerra al terrore globale che ha provocato un’escalation drammatica, sacrificando molte vite innocenti. I repubblicani faranno spallucce. Mentre i fan di Trump, è noto, non lo hanno certo votato perché in linea con la precedente politica del partito di Bush e Cheney. La sequenza sui titoli di coda in cui i partecipanti del focus group si accapigliano sul taglio liberal del film sa di coda di paglia, una clownerie ma niente più. E se il monologo guardando in macchina con cui Cheney a fine film giustifica cinicamente le sue azioni può superficialmente far venire in mente Il Divo, non c’è chi non veda come si tratti più di un artificio istrionico messo in piedi dalla sceneggiatura che di un autentico scarto dal tono un po’ burocratico dell’opera.

Adam McKay può inventare un falso finale dopo cinquanta minuti, con i titoli di coda posticci che suggellano una vicenda americana di successo personale e familiare come una delle tante storie che in America vengono prese ad esempio morale (e l’ironia è sacrosanta). Può creare un refrain paradossale mostrando l’understatement di un politico che tratta i suoi attacchi di cuore come accidenti quasi irrilevanti. Può persino (e gli passiamo l’espediente che altri avevano usato con diversa pertinenza) far raccontare l’intera trama a un eccentrico narratore fuori dai giochi fin quasi alla fine (e non diciamo altro per i paladini delle recensioni senza spoiler). Ma stare a ingegnarsi per coreografare in modo divertito – più che divertente – l’ascesa di un malvagio ben celato dietro i silenzi di un ottimo (lui sì) Christian Bale non sono così sicuro che sia abbastanza.

voto_3

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.