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Dedicato a tutti coloro che muoiono nella testa prima che nel cuore.

Quando si ha a che fare con un film di Gaspar Noé bisogna sempre prepararsi in modo adeguato alla visione, sapendo bene che il controverso e irrequieto regista, nato a Buenos Aires nel 1963 ma trasferitosi in Francia con la famiglia quand’era ancora un adolescente, non vuole piacere alla critica o intrattenere il pubblico ma metterli alla prova, provocarli, infastidirli, talvolta anche aggredirli a livello visivo. Del resto lo ha sempre fatto, già a inizio carriera con Seul contre tous e soprattutto col film successivo, lo “scandaloso” Irréversible, presentato vent’anni fa in concorso a Cannes nel clamore generale e in mezzo a mille polemiche.

Sempre a Cannes, stavolta inspiegabilmente fuori concorso, l’autore franco-argentino ha presentato nel 2021 la sua ultima creatura, Vortex, che ha per protagonisti l’attrice francese Françoise Lebrun e il nostro Dario Argento, chiamato per la prima a cimentarsi in un ruolo importante davanti – e non dietro – alla macchina da presa. I due, senza nome, semplicemente lei e lui, sono una coppia di anziani che trascorre le giornate nel proprio appartamento parigino. La donna, ex psichiatra, è affetta da Alzheimer, l’uomo è uno studioso di cinema alle prese con la stesura del suo nuovo libro (Psiche, su cinema e sogno). L’unica persona che fa loro visita è il figlio Stéphane, che ha intrapreso con difficoltà un percorso per disintossicarsi dalle droghe. Col passare del tempo la salute dei due peggiora sempre più, a causa del galoppare dell’Alzheimer per lei e di problemi cardiaci per lui.

Noé adotta da subito la suddivisione dello schermo in due parti, uno split screen ingombrante e insistito che ci accompagnerà fino ai titoli di coda e di cui si capirà bene l’utilizzo nella parte finale, per pedinare e rimanere sempre addosso ai due personaggi principali, anche nelle rare occasioni in cui non si trovano insieme. L’autore non abbandona il ricorso alla formula dello split screen neanche quando lui e lei sono nella stessa stanza, perfino nella medesima inquadratura (seduti al tavolo insieme al figlio e al nipotino) per non snaturare l’estetica del film e per conferire un senso di claustrofobia costante e perenne che non lascia scampo allo spettatore, intrappolato per quasi tutto il tempo della visione all’interno dell’appartamento labirintico, stipato all’inverosimile di quadri, manifesti e locandine di cinema (1), foto, libri e oggetti vari. Un’abitazione lasciata a se stessa, malandata come i due anziani che il figlio vorrebbe aiutare, ma non ha la forza e i mezzi per farlo, quasi sul punto d’implodere. Su Vortex aleggia un senso costante di malattia e morte a causa delle precarie condizioni di salute di entrambi, acuito dall’incapacità di comunicare tra loro. Gaspar Noé s’immerge nel loro malessere, sprofonda nel loro dolore e nelle loro difficoltà e sofferenze fino a giungere a un epilogo lacerante dove è impossibile restare freddi o indifferenti.

Opera impegnativa, talvolta ostica e sfiancante, Vortex ci travolge col suo dolore straziante, col vuoto e col senso di perdita racchiusi in una metà dello schermo che diviene tetro e nerissimo come la morte. Se nei suoi lunghi precedenti Noé ci aveva colpito e fustigato con emozioni forti e scioccanti, col sesso esplicito e spinto di Love, con le danze sfrenate, allucinate e lisergiche di Climax, con la violenza estrema e a tratti insostenibile dello stupro protratto e insistito nel sottopassaggio in Irréversible, qui alla fine riesce addirittura a commuoverci dopo averci lasciati impietriti più volte. Merito anche dei due magnifici protagonisti, una fragile, tenera e confusa Françoise Lebrun, che qualcuno ricorderà nel capolavoro del suo compagno Jean Eustache La maman et la putain, e un sorprendente e toccante Dario Argento, bravissimo a calarsi nei panni dello studioso e critico cinematografico, reggendo il peso dell’inquadratura per tutto il film col suo francese stentato e quel senso d’improvvisazione richiesto da Noé (abituato spesso e volentieri a girare scene senza scrivere nel dettaglio dialoghi e situazioni) che ben si addice a un interprete non professionista qual è in definitiva il maestro del brivido del cinema italiano. Un film dolente, intimo e sincero, incentrato su temi scomodi e difficili come la malattia, la solitudine e la morte (2), ignorati o considerati dei veri e propri tabù dalla nostra società, e che potrebbe coincidere con l’inizio di una nuova fase artistica del cineasta franco-argentino, meno esibita e provocatoria, più matura e consapevole.

(1) Le citazioni e i principali rimandi vertono sull’espressionismo tedesco, con locandine di Metropolis e Il dottor Mabuse e con Argento che in un momento del film guarda la videocassetta di Vampyr di Dreyer, per la precisione la celebre e indimenticabile soggettiva del protagonista sdraiato all’interno di una bara.

(2) Già affrontati una decina d’anni fa da Michael Haneke in Amour, ma in modo profondamente diverso.

voto_4

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.