Somewhere in Northern Italy.
Al suo debutto nella serialità televisiva Luca Guadagnino ci porta in un mondo a noi sconosciuto, eppure così vicino, in una base militare americana situata nei pressi di Chioggia. Siamo nel 2016, nell’estate che precede le elezioni presidenziali statunitensi, con Trump e il suo America First pronti a invadere e sconquassare il Paese e la scena internazionale come un virus letale e irrefrenabile. La base militare è pressoché uguale e identica alle altre sparse per il globo terrestre, con le strade, i negozi, la scuola, il multiplex, il supermercato che riproducono fedelmente il modello e lo stile di vita americano. Siamo in Veneto, siamo in Italia ma in realtà ci troviamo in America (così lontano così vicino). E in quella base da New York è appena arrivato Fraser, il figlio adolescente del colonnello Sarah Wilson, giunta in Italia insieme alla moglie Maggie per prenderne il comando. Fraser ha un rapporto teso e conflittuale con la madre, che lo vizia e gli concede tutto, oltre a non far mai valere la propria autorità di genitore. Fraser è vivace e curioso, ama leggere e ascoltare musica, ha un look eccentrico e fantasioso, con abiti ricercati, vistosi e coloratissimi, ha una sessualità ancora acerba, liquida e incerta. Fraser conosce la coetanea Caitlin, una ragazza nel pieno di un complicato processo alla scoperta del sé e della propria sessualità, figlia di un ufficiale afroamericano in servizio alla base e convinto sostenitore di Donald Trump. Tra i due ragazzi nasce subito un’intesa, un legame forte e indefinito, un’attrazione mentale, che li avvicina l’uno all’altra e insieme li allontana dal mondo circostante, incapace di comprenderli e capirli.
L’incipit del primo episodio, coi titoli di testa colorati e ultra pop, con la musica ariosa, vitale e avvolgente, con la macchina da presa che indugia sul giovane protagonista, rimanda immediatamente a Call me by your name, divenuto ormai un piccolo film di culto coinciso con una nuova e fortunata fase artistica per Guadagnino, il più internazionale dei registi di casa nostra insieme a Paolo Sorrentino. E infatti non è certo casuale che entrambi abbiano firmato serie tv prodotte da HBO in collaborazione con Sky, come non è casuale che entrambi riescano ad avvalersi di cast internazionali di un certo richiamo e a sollevare sempre e comunque polemiche e clamori qui da noi in occasione dell’uscita dei loro nuovi progetti, con pubblico e critica perennemente e nettamente divisi in estimatori e detrattori.
In We are who we are, scritta dal regista palermitano insieme a Sean Conway, Francesca Manieri e allo scrittore Paolo Giordano, la macchina da presa è posizionata ad altezza di adolescente ma riesce anche a dar vita e corpo ai personaggi adulti – credibili, complessi e sfaccettati -, ai padri e soprattutto alle madri che si confrontano e scontrano coi loro figli. Guadagnino, che si è sbizzarrito e divertito da matti nel dar vita e forma al guardaroba vintage e ultrapop di Fraser, indugia sui volti e sui corpi dei suoi giovani protagonisti, li osserva rapito mentre parlano e amoreggiano, mentre cantano e ballano, mentre fumano e bevono, mentre ascoltano musica, si abbracciano e si guardano tra loro. Il regista, che ha dedicato la serie al padre scomparso di recente, dimostra ancora una volta di essere figlio artistico di Bernardo Bertolucci, citato in modo esplicito in una scena domestica di ballo ed effusioni a tre e attraverso il poster di Ultimo tango a Parigi, e della Nouvelle Vague da cui provengono le fughe e le continue corse a perdifiato, talvolta in solitaria talvolta mano nella mano, di Fraser e Caitlin.
Guadagnino si approccia alla serialità in modo diverso e inconsueto rispetto ad altri cineasti che sono passati dal grande al piccolo schermo, elabora un linguaggio tutto suo, con la mdp in perenne movimento, curiosa, vivace e inquieta come Fraser, per poi rallentare all’improvviso e catturare il momento, il qui e ora, right here right now, e infine fermarsi di botto, con un uso insistito e ricorrente dei fermo immagine che rimandano e fanno pensare alle diapositive. Una narrazione ibrida e fluida, libera e senza vincoli, che si discosta dal classico e consueto storytelling televisivo per aprirsi a qualcosa di nuovo, per provare a sperimentare e inventare un linguaggio che possa essere al contempo filmico e televisivo.
Se l’estetica e il linguaggio sono curati e ricercati, così come la scelta e l’utilizzo delle musiche al solito ispirate e sorprendenti (c’è anche Emilia Paranoica dei CCCP!), i temi – oltre agli archetipi del coming of age già affrontati in Call me by your name – ci dicono molto delle tante contraddizioni e conflittualità della società americana, mai pacificata, sempre restia a scrutarsi e ad esaminarsi al suo interno, chiusa in una microbolla e incapace di guardare al di là del proprio naso per aprirsi a culture diverse e ad influenze esterne, schermata e protetta da inutili rituali militareschi, atti a tenere in piedi l’Impero, a far valere la supremazia economica e militare. I giovani però hanno fame di vita e d’amore, i soldati ventenni si sposano ventiquattr’ore prima di partire in missione per l’Afghanistan con ragazze locali conosciute in quel di Chioggia, alla periferia dell’Impero, improvvisando in poche ore un matrimonio e una festa di nozze che alla fine si trasforma in un rave party sempre più sfrenato e liberatorio (quarto episodio, uno dei più belli e intensi della miniserie). L’estate però è giunta al termine, è in arrivo l’autunno, il trionfo di Trump è ormai prossimo e ineluttabile, come il sacrificio di vite umane richiesto – e imposto – da una nazione perennemente in guerra. E allora si prova in qualche modo a elaborare un lutto, a stare assieme, a rimanere stretti e a farsi forza a vicenda, si torna in quei luoghi dove si era festeggiato ma non vi si trova nulla, solo rabbia e dolore, disperazione e frustrazione. Alla fine a Fraser e Caitlin non resta che una fuga in treno a Bologna, al concerto di Blood Orange (che ha firmato la colonna sonora della serie), e una corsa a perdifiato per le vie della città immersa nella notte, così bella e così silenziosa. Per salutarsi e dirsi addio, per baciarsi al sopraggiungere dell’alba, prima che tutto svanisca e si trasformi, prima di ricominciare a correre mano nella mano.
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