Sign In

Lost Password

Sign In

WEST SIDE STORY

WEST SIDE STORY

WEST SIDE STORY

Il beneficio del dubbio.

To Dad. La dedica al padre defunto (lo scorso anno) dei titoli di coda dice che per Spielberg, al di là dell’occasione, è una faccenda personale, questo West Side Story del 2021. Lo si sapeva, del resto. Più che di un remake del film di Robert Wise e Jerome Robbins di sessant’anni fa, siamo in presenza di un’opera che tenta di coniugare il rispetto e la commozione per chi si è stati un tempo con la coscienza di chi si è diventati. Oltre i contorcimenti o le soluzioni di continuità, in fondo questo lavoro è la confessione di un idem sentire che coinvolge sia le questioni etniche e razziali sottese dal film (e riproposte senza autentico distacco critico perché non ce n’è bisogno, tanto sono attuali) sia la dimensione affettiva più intima.

Lo si potrebbe intuire già dal piano sequenza che apre il film. All’attacco sornione di Wise e Robbins che dopo la magistrale apertura a camera fissa e colori mobili di Saul Bass mostrava dall’alto la New York degli anni 50, Spielberg contrappone una visione più cupa in medias res e non frappone immediatamente lo schermo rappresentato dal musical davanti agli spettatori: che osservano impietriti macerie di palazzi in demolizione, wrecking balls, detriti, introdotti da un movimento ascendente della macchina da presa che tutti conosciamo bene a partire da Quarto Potere. Come a dire che qui c’era un impero, signori, e che questo è tutto ciò che ne è rimasto.

West Side Story di Steven Spielberg non è una tragedia colorata modellata sul Romeo e Giulietta, come era il musical di Broadway rappresentato con infinito e sempre rinnovato successo migliaia di volte in America e nel mondo. È invece un’orazione funebre, ancora una volta, sul Sogno Americano e sulla concordia da questo presupposta, più ideologica e nelle speranze che nella realtà fatta invece di conflitti che non si sopiscono. Come tale ha anche un senso preciso che non ci siano particolari attualizzazioni e licenze.

Eppure questa lamentazione che è in controluce anche una riflessione sul riverbero del cinema del passato in quello del presente (con un’ulteriore coloritura mortuaria, se mai ce ne fosse bisogno), non riesce mai a costituirsi come la vera anima dell’opera. Spielberg spende tesori di intelligenza cinematografica, dimostra una padronanza del genere assoluta – ed è al suo primo musical: ma questa è un’altra storia -, ma le intenzioni non sanno uscire dallo splendore della forma. In parole povere, West Side Story vive in una contraddizione irrisolta: è talmente bello da guardare che non si riesce mai a vedere sotto la sua superficie, non c’è mai (quasi mai, vedi il finale) un brivido di passione. È un film ammirevole che non sa suscitare un eco in chi lo vede. Che vorrebbe conquistarci con la sua regalità e proprio per questo suona più che mai lontano. Bellissimo e inabitabile, simile a una montagna inaccessibile, West Side Story appare troppo “divino” per farci accomodare in una posizione adatta a saggiarne le altezze e le gioie. Il che forse spiega perché, sfortunatamente, stia floppando da noi come negli Stati Uniti.

Ci rammarica, ma non disperiamo. Alcuni film hanno a volte in sorte un destino diverso dalla media, quello di non essere in sintonia col gusto o, sia detto più sommessamente, con i bisogni del loro tempo (questo secondo spunto mi sembra il più verosimile). A West Side Story potrebbe toccare, più che la rivalutazione, una benevolenza a lungo termine: quella dell’opera voluta da un genio che poteva permettersi davvero tutto, un po’ come accaduto al suo amico Coppola con l’immaginifico e (oggi lo diciamo sereni) meraviglioso Un sogno lungo un giorno. A Spielberg, che ha inventato il blockbuster (insieme a Lucas) e che ha inventato dal nulla franchise e saghe che hanno aperto nuovi universi come quelle di Jurassic Park e di Indiana Jones, per non parlare di tutto il resto… beh, a uno come lui possiamo concedere il beneficio del dubbio, e anche tanto altro.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.