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WONDER WOMAN

WONDER WOMAN

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Wonder Woman è fra noi: e dire che era attesa al varco – per più di un motivo – è riduttivo.
Prima di tutto un po’ di storia. Wonder Woman, il fumetto, nasce nel 1941 per mano di William Moulton Marston all’interno della DC Comics; e, parole sue, lo creò perche “miglior rimedio per rivalorizzare le qualità delle donne è creare un personaggio femminile con tutta la forza di Superman ed in più il fascino di una donna brava e bella”. Manifesto creativo quanto mai limpido e cristallino, perché negli anni la supereroina ha sempre tentato di incarnare più o meno fedelmente le parole del suo demiurgo, pur attraversando (com’è ovvio per un personaggio a fumetti) alti e bassi dovuti ai diversi team creativi che ci hanno messo mano – ci piace ricordare i migliori, da William Messner-Loebs e Mike Deodato Jr a George Perèz, da Ed Brubaker e Jim Chang fino all’ultimo Greg Rucka e Liam Sharpe -, ma restando fedele quanto più possibile alla sua natura originaria.
E poi, il cinema: ormai solo i sassi non sanno che negli ultimi anni le sale sono vittime di un’invasione – barbarica o meno giudicate voi – di saghe e universi condivisi, partendo e finendo dai Marvel Studios (che hanno avuto per primi l’intuizione, per la celluloide così come per la carta stampata, di un enorme universo condiviso in cui vari eroi sono parte di una stessa macrostoria) con i loro Avengers, Captain America e via discorrendo. Ovvio che la casa editrice rivale, la DC Comics appunto, non potesse restare al palo: forte di serial tv decisamente di successo ma di obiettiva scarsa qualità e riservati ad un pubblico teen di bocca buona, la DC non ha mai avuto fortuna con i suoi eroi su grande schermo. Se si esclude il jolly di Batman, che ha avuto registi come Tim Burton e Christopher Nolan, il terzo componente della triade, Superman, è stato a dir poco sfortunato: varie incarnazioni, diversi attori e tanti registi per un’impresa che solo Zack Snyder (e solo in parte) è riuscito a portare a termine pur con l’aiuto del pipistrellone, appunto in Batman Vs Superman. E’ stata la forza produttiva di Snyder a condurre alla nascita (poco spettacolare a dir la verità, e sempre larvata) di un universo condiviso anche per gli eroi DC, perché proprio sul finire del suo BvS arrivava l’amazzone interpretata da Gal Gadot a salvare la situazione, preannunciando contemporaneamente la riunione degli eroi nel prossimo venturo Justice League. Con un passaggio fondamentale, e qui arriviamo a noi: il film da “solista” di Wonder Woman.
Che, diciamolo subito, è riuscito a metà. Strano impasto di tanti obiettivi, vittima sacrificale e forse inconsapevole capro espiatorio di un discorso che mediaticamente trascende l’oggetto stesso, il Wonder Woman di Patty Jenkins è chiaramente un origin film, con quello che comporta: prima di tutto, e più importante, il notevole dislivello fra una prima parte funzionale al racconto della nascita dell’eroina, ed una seconda che invece si (tra)veste da war movie.
Sì, perché un’altra delle intuizioni dei cinecomics è proprio quella di nascondere (quasi fosse un difetto) la storia prettamente superomistica sotto altro genere, facendo in modo di accontentare più persone: chi, con un po’ di altezzosità, vede di malocchio il film con il protagonista vestito in spandex, può apprezzare il tratto “di genere”; chi proviene dal fandom più accanito corre in sala per gustare il proprio beniamino.
Wonder Woman non fa eccezione: come Ant-Man (che è un heist-movie), come Captain America (che è un film molto politico) e anzi ricalcandone un po’ l’esempio, circa un’ora e quaranta delle due e venti complessive è tarata su una trama immersa nelle nebbie grigiastre della Seconda Guerra Mondiale, dove Wonder Woman propriamente detta non viene mai chiamata con il suo nom de plume e il suo costume da battaglia – eccellente, va detto – viene mostrato col contagocce. L’azione si sposta, non senza traumi e cali di tensione, dall’isola di Themyscira (dove Diana trascorre infanzia e adolescenza e dove ha luogo la parte più centrata e forse spontanea del film, delicata e visivamente azzeccatissima mentre si ricollega al Mito) a Londra, dove assistiamo alla nascita di ben due villain – Ares, il dio della guerra, la nemesi predestinata di Diana; e la dr.ssa Maru, ben più spaventevole e interessante, purtroppo messa inspiegabilmente in secondo piano -, e dove un ingessato Chris Pine dà luogo a simpatiche gag che alleviano la tensione di una storia che inscena ottimamente la tragedia della guerra.
La Wonder Woman di Patty Jenkins, alla fine, sembra voler recuperare l’ingenuità delle origini, che a tratti coraggiosamente sfocia in nostalgica naiveté, con un’immagine donchisciottesca di lei in cappotto, scudo e spada per le affollate strade di Londra. E l’opera funziona soprattutto come primo cinecomic dedicato ad una donna e da una donna diretto, senza però scacciare del tutto l’impressione che DC e Warner, dopo il clamoroso fiasco di Suicide Squad, abbiano confezionato un film che è programmato a puntino su carta, sorretto da una soundtrack robusta e bellissima, reso bene da un’attrice con il phisique du role perfetto, da una regista efficace e da un produttore – Snyder – che imprime a fuoco il suo marchio di fabbrica in sequenze action al cardiopalma con ralenti e CG a profusione; ma fin troppo schematico nello svolgimento che, specie sul finale, si fa verboso e purtroppo prevedibile (tutta l’ultima ora è un susseguirsi di passaggi dovuti e imprigionati in uno schema-gabbia fin troppo definito). E sembra allora quasi un’occasione sprecata, perché essendo il primo film Dc/Warner realmente riuscito (non che ci volesse poi tanto…), se solo avessero osato di più avrebbero portato a casa un risultato migliore. Wonder Woman non ha la forza nichilista del Logan di Mangold, la possanza grottesca ed eversiva di Deadpool né l’autorialità del Batman di Nolan, e neanche la nostalgia malinconica del First Avengers Captain America o la spietatezza politica di Winter Soldier; eppure da ognuno di questi avrebbe dovuto prendere qualcosa, quantomeno come insegnamento per poter superare quel sottile confine che separa un compito fatto straordinariamente bene da un bel film.

voto_3

Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.