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L’undicesimo film della saga dei mutanti.

Ah, quando un film era solo un film e lo si guardava solo come un film.

Step 1: in origine, la Marvel vendette i diritti dei suoi eroi a diverse case di produzione: mentre gli X-Men finivano alla Fox, altri eroi allora minori (parliamo di fine anni ’90 inizio 2000) restavano della casa madre, che ebbe poi l’intuizione – brillante – di reinventarli sul grande schermo per creare un universo condiviso al cinema così come nei fumetti.

Step 2: dopo il successo planetario del Marvel Cinematic Universe, pian piano gli eroi “tornano a casa”, e i mutanti pure visto che la Fox viene acquisita, in uno dei passaggi economici più importanti del secolo, dalla Disney.

Step 3: occorre un reboot, un repulisti. Ragion per cui le numerose serie Netflix chiudono (esce in questi giorni Jessica Jones 3, che pare un insuccesso annunciato), mentre le storie degli uomini X hanno bisogno di fermarsi. Peccato che l’ultimo film del franchise Fox-Marvel, e arriviamo a noi con X-Men – Dark Phoenix, l’undicesimo della serie, sia stato in lavorazione durante quei procedimenti di acquisizione di cui sopra, inconsapevole e incolpevole vittima dei passaggi di diritti. Gli X-Men – della Fox – devono morire, per rinascere nel MCU: Simon Kinberg, sceneggiatore della serie e per la prima volta dietro la macchina da presa, ha l’ingrato compito in definitiva di dirigere un film le cui trame a) non porteranno a nulla, b) sono già state sostanzialmente raccontate in X-Men Conflitto Finale, c) devono forzosamente racchiudere accenni ai film precedenti.

Conclusione: da quando per giudicare un film, per dire se è bello o brutto, per parlarne e per goderselo, occorre sapere tutte le (sostanzialmente inutili) nozioni appena elencate? Da quando un film è importante o meno solo se avrà un seguito, fa parte di un universo condiviso, ha legami con altri film successivi o precedenti? Domande apparentemente retoriche, ma che oggi purtroppo sembrano pesare come un macigno su buona parte dei film in sala. Occorre precisare, innanzitutto, che chi scrive è un grandissimo appassionato della Marvel a fumetti, e apprezza oltremodo alcuni cinecomics come The Winter Soldier o Avengers: Endgame, a tal punto da voler loro conferire nel bene e nel male la stessa dignità di opere più blasonate. Ma paradossalmente, e sembra un cortocircuito ma non lo è, i cincecomics devono essere apprezzati estraniandosi da tutti i discorsi sui cinecomics: perché la regia di Kinberg deve piacere solo se gira intorno a una Jean Grey (una efficacissima Sophie Turner, che sa bene come scrollarsi di dosso le stigmate di Samsa Stark) consapevole che lo stesso ruolo, nella stessa storia, è stato affidato a Famke Janssen tredici anni fa?

Insomma, guardare X-Men – Dark Phoenix senza saperne una virgola aggiungerebbe molto più piacere alla visione: perché l’esordio del buon Simon alla regia ha ritmo da vendere, ha i primi 60’ che non lasciano scampo, ha dei protagonisti centrati, ha pathos e dramma e azione miscelati nella giusta misura, sa quali character approfondire e quali invece lasciar stare (apprezzando il poco spazio dato a Quicksilver, protagonista di alcune delle più riuscite sequenze dei film precedenti, che poco avrebbe aggiunto stavolta; e i camei di mutanti poco noti come Dazzler, Stacey X e Omega Red) . E soprattutto prende la sua saga d’origine (The Dark Phoenix Saga, serializzata nel 1980 su Uncanny X-Men con Chris Claremont ai testi e John Byrne ai disegni, dettando legge su come dovesse essere scritto un fumetto in futuro) e la reinventa con gusto e senza spiegoni o digressioni inutili, piegando alle sue esigenze alcuni personaggi – come gli alieni D’Bari, razza di cui fa parte il personaggio con le fattezze di Jessica Chastain – e soprattutto valorizzandone al massimo altri, come la stessa protagonista Fenice o il Magneto di Fassbender, che assumono proporzioni importanti e grandezze emotivamente notevoli.

Ma non viviamo in un mondo perfetto: e il coro di fan scontenti ha fatto da preludio ad un film che, nei soli tre giorni successivi al suo passaggio in sala, viene subito paragonato negli incassi al mastodonte Endgame, perdendo ovviamente, ma anche ai suoi predecessori, relativizzando definitivamente tutto l’oggetto filmico a nozioni che teoricamente con la sua critica non c’entrano nulla. Certo, rimane un po’ di amaro in bocca pensando che tutti questi spunti verranno rebootati a breve; ma dispiace soprattutto che quasi nessuno, per un pasticcio metanarrativo, empatizzerà con i dolori della Fenice, alla ricerca disperata di un motivo per dare un senso al Bene e al Male. Be’, non c’è riuscito neanche il pubblico.

voto_4

Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.