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Il vampiro esangue di Pablo Larraín.

In Concorso a Venezia 80, dove una Giuria eccessivamente generosa lo ha premiato con l’Osella per la migliore sceneggiatura, El Conde di Pablo Larraín è già disponibile su Netflix, pochi giorni dopo essere stato presentato alla Mostra del Cinema. Il colosso dello streaming, a differenza di quanto accaduto in passato con altri autori affermati come Cuarón, Scorsese e Campion o di quanto avverrà con The Killer di Fincher, sempre in competizione al Lido, ha deciso di mandarlo subito su piattaforma senza farlo passare dalle sale italiane. Una decisione piuttosto controversa che da noi, al contrario della Francia dove Cannes per scelta non seleziona più in Concorso i film destinati esclusivamente alle piattaforme, a quanto pare non suscita più malumori o polemiche.

L’ex dittatore cileno Augusto Pinochet, dato per morto da anni, in realtà è un vampiro di 250 anni, nascosto su una piccola e sperduta isola in Patagonia, dove si è ritirato con la moglie Lucía e il maggiordomo Fëdor, un russo che durante il regime militare addestrava i suoi squadroni della morte e adesso gli procura vittime da dissanguare. Isolato, decrepito e amareggiato da un giudizio storico sempre più severo e critico sul suo operato e la sua figura, Pinochet ha deciso di lasciarsi morire, rinunciando a nutrirsi di sangue umano. Un giorno però i suoi cinque figli arrivano sull’isola, determinati a rintracciare e scovare il patrimonio che il padre ha nascosto in giro per il mondo, e assoldano una suora, Carmencita, perché si infiltri nella dimora dei genitori come contabile e riesca a conquistare la fiducia di Pinochet.

Il regista cileno, nuovamente in Concorso a Venezia due anni dopo Spencer, uno dei titoli più belli e ispirati della sua filmografia, in questa sua ultima fatica torna a parlare del suo Paese dopo la celebre trilogia sulla feroce e sanguinaria dittatura militare, di cui quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario, composta da Tony Manero, Post Mortem e No – I giorni dell’arcobaleno. Stavolta, al posto dei toni realistici e drammatici, Larraín decide di utilizzare quelli di una farsa politica in chiave horror-fantasy incentrata sulla figura del dittatore Augusto Pinochet. La voce narrante, così fastidiosamente persistente e invasiva fin dai primi minuti, di cui è bene non svelare l’identità per non rovinare la sorpresa al pubblico, oltre a creare un effetto straniante rappresenta uno dei principali problemi strutturali di un film che vorrebbe essere ironico e corrosivo ma non riesce quasi mai a esserlo veramente. Si ha l’impressione che questo progetto, tanto caro a Larraín che covava da lungo tempo l’idea di realizzare un film sul feroce dittatore che ha causato tanto dolore e una ferita tuttora aperta al suo Paese, sia sfuggito di mano al regista cileno, impegnato a procedere per accumulo e con scarsa verve e lucidità, mettendo troppa carne al fuoco. In quest’opera confusamente satirica e allegorica, che si avvale della bella e suggestiva fotografia in bianco e nero di Edward Lachman, i temi sul potere e le riflessioni sulla natura umana tanto care a Larraín appaiono prive di incisività e mordente. El Conde è un film stanco come il suo protagonista e poco ispirato, dove anche gli interpreti come il sodale Alfredo Castro, il principale volto del cinema di Pablo Larraín, sembrano finiti lì per caso, risultando sprecati e privi di spessore . L’unica eccezione è rappresentata dalla figura (e dagli occhioni) di Carmencita interpretata da Paula Luchsinger, già vista e ammirata accanto alla protagonista Mariana di Girolamo nel bellissimo Ema, ripresa e accostata da Larraín nientemeno che alla Renée Falconetti di La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer. L’Osella per la sceneggiatura, ovvero per uno degli aspetti più deboli e carenti del film, firmata a quattro mani dal regista cileno (che non ne scriveva una dai tempi di Il club) assieme al sodale Guillermo Calderón, appare quantomeno paradossale. El Conde rappresenta la prima – inaspettata – battuta d’arresto per Larraín (o la seconda se consideriamo l’infelice esito artistico della miniserie tv tratta da Stephen King La storia di Lisey), a cui non giova affatto il passaggio poco riuscito al puro film di genere declinato sui toni farseschi e allegorici di una dark comedy.

voto_2

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.