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L’ULTIMA SPIAGGIA

L’ULTIMA SPIAGGIA

Beach foto2

Prima e dopo la fine del mondo.

Le lunghe ore trascorse a casa negli ultimi tempi hanno almeno qualche risvolto positivo, per esempio permettono di gustare alcuni film del passato la cui visione altrimenti rischierebbe di essere rinviata sine die. Tra i titoli che ho avuto modo di apprezzare negli ultimi giorni, ve ne sono alcuni di Stanley Kramer, un regista importante e purtroppo sottostimato (ma amato per esempio da Steven Spielberg). Kramer peraltro è l’autore di lavori significativi, potenti, di grande impatto emotivo e con cast straordinari come Vincitori e vinti (Judgment at Nuremberg, 1961) o tra gli altri dei conosciutissimi (e un po’ schematici) La parete di fango (The Defiant Ones, 1958) e Indovina chi viene a cena? (Guess Who’s Coming to Dinner?, 1967).

Verosimilmente un po’ meno visto e conosciuto dal pubblico (1) è invece L’ultima spiaggia (On the beach, 1959), realizzato con poche variazioni di trama a partire da un romanzo di Nevil Shute del 1957 che in piena Guerra Fredda immaginava l’apocalisse nucleare aver luogo appena pochi anni dopo, nel 1963 (1964 nel film). Ma pur inserendosi nel filone dei film che paventavano l’uso delle armi nucleari come i capolavori di Kubrick (Il dottor Stranamore) e Lumet (A prova di errore), l’opera di Kramer se ne distacca per i toni intimistici e la quasi totale assenza di richiami alle ragioni della follia atomica: l’unica eccezione è nella sequenza del party con l’amara e vibrata constatazione dello scienziato Julian Osborne dell’incoscienza di chi pensava di poter mantenere la pace con armi il cui uso sarebbe stato suicida.

L’attenzione del plot si appunta sull’attesa della fine: è solo questione di tempo prima che la nube radioattiva spinta dai venti raggiunga Melbourne e l’Australia. Tutti ne sono consapevoli e fanno i conti come meglio possono con l’idea della morte imminente. La galleria di ritratti è memorabile, a cominciare dal protagonista Dwight Lionel Towers (Gregory Peck), comandante di un sottomarino americano che non può uscire dall’ombra della moglie e dei figli periti nell’olocausto nucleare. Il suo percorso si incrocia con la disperazione della bella Moira Davidson (Ava Gardner), innamorata di lui proprio quando ormai non c’è più speranza: prima si trova in competizione con il fantasma della defunta consorte di Towers, poi con la struggente impossibilità di godere degli ultimi attimi insieme per la scelta dell’uomo di tornare a casa, in America, dietro le pressioni dell’equipaggio. La quieta mestizia che sta dietro alla loro breve passione trova un appropriato polo di contrapposizione dialogica nella drammatica situazione della coppia formata da Peter e Mary Holmes (Anthony Perkins prima di Psyco e la debuttante Donna Anderson, poi destinata soprattutto a una carriera televisiva): l’uno rassegnato alla fine, l’altra incapace di accettare che la figlia di pochi mesi non abbia un futuro. Se proprio devo scegliere un personaggio da amare sopra gli altri, però, è quello del suddetto Osborne (Fred Astaire in un ruolo drammatico): impeccabile fisico nucleare che prima gareggia e vince alla guida di una Ferrari un improbabile Gran Premio d’Australia che assomiglia a una roulette russa (la sequenza più concitata del film); poi sceglie nel modo più freddo di non aspettare la fine per mettere termine alla sua sofferenza.

Lo sfondo tragico non impedisce al film di avere momenti più leggeri e di sorprendere proprio per la pacatezza con cui accosta all’ineluttabilità della fine del mondo interludi che non sfigurerebbero in uno dei tanti melodrammi di quegli anni: ricevimenti in interni borghesi, partite a biliardo, pause di apparente spensieratezza sulla spiaggia, persino la gag nella quale due incalliti degustatori di vino si lamentano di avere così tante buone bottiglie a disposizione e troppo poco tempo per berle tutte. Mentre rimane sotto traccia e giustamente non esplorato il legame di dedizione (amorosa?) che intercorre tra due figure di contorno come il tenente Osgood (Lola Brooks) e l’anziano ammiraglio Bridie (John Tate), uniti fino alle ultime battute e ravvicinati in un brindisi conclusivo.

La bella fotografia in b/n di Giuseppe Rotunno si apprezza ancora di più nelle sequenze di sapore “definitivo”: le immagini di San Francisco deserta nonostante sia intatta; la ripresa conclusiva di una piazza di Melbourne ormai abbandonata. È solo uno dei molti pregi di un film che meriterebbe di avere più estimatori, opera di un regista e produttore (di film importanti come Mezzogiorno di fuoco o Gli esclusi) non sempre apprezzato dalla critica (per esempio da Pauline Kael e da David Thomson, che considera i suoi film “faciloni ed enfatici”), ma che andrebbe in ogni caso rivalutato e innalzato tra i veri grandi della Hollywood di quegli anni.

(1) Pur essendo il nono incasso al box office americano del 1959 in una classifica dominata dal fenomeno Ben-Hur, il film fu un complessivo flop con una perdita di 700 mila dollari.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.