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MISSION: IMPOSSIBLE – DEAD RECKONING – PARTE UNO

MISSION: IMPOSSIBLE – DEAD RECKONING – PARTE UNO

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Missione: in stand-by.

Cominciamo a risvegliarci quasi alla fine, che poi fine non è, in attesa del secondo capitolo: ma occorre ragionare su ciò che c’è qui, adesso. Sull’orlo di un ponte ferroviario distrutto da un’esplosione ordita dal suo nemico Gabriel, Ethan Hunt è infatti costretto a saltare e risalire di vagone in vagone dell’Orient Express, a ritroso, nel disperato tentativo di salvarsi insieme alla bellissima ex ladra Grace unitasi a lui e al suo gruppo. Salvarsi gli permetterà di ricominciare la sua lotta all’Entità che sta minacciando il mondo di precipitarlo nel caos.

È il vero epicentro dell’azione, questa lunga ed articolata scena, il vertice verso cui punta e si distende tutto il film. Prima di questo ultimo atto, Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte Uno infila invece uno dietro l’altro i seguenti: un antefatto su un sottomarino, un capitoletto di “garanzia” (tra il recupero della chiave nel deserto della Namibia e l’ufficio dell’intelligence: con le proverbiali maschere a farla da padrone), una sezione “teorica” all’aeroporto di Abu Dhabi, un ludico intermezzo romano, una parentesi veneziana tanto accessoria quanto infine tragica. Una costruzione a strati (ma verrebbe da dire “a vagoni”) che rende conto dello sforzo da un lato di accontentare quanti più palati possibili, dall’altro di rispondere alle sfide lanciate ormai in grande quantità da molte serie action prive di quel pedigree che a Mission: Impossible hanno portato in dote le sette stagioni della serie tv 1966-1973 e i primi, “autoriali” capitoli firmati De Palma, Woo, Abrams. Saghe che hanno abbozzato il sorpasso a destra, come Fast and Furious (la parte romana lascia la curiosa impressione di un’impossibile risposta in tempo reale all’inseguimento cialtronesco di Fast X) e persino la (conclusa?) John Wick: più che coi supercampioni del box office, tra i declinanti Marvel e i fenomeni Super Mario Bros e Barbie, è con questi punti di riferimento che il franchise si trova a brigare e dover dimostrare di reggere la sfida.

Il prezzo è palesemente la fatica, ma anche la mancanza di tempo per cesellare i passaggi (si veda la frettolosa elaborazione del lutto dopo gli avvenimenti di Venezia, che avrebbe meritato ben altro). Mission: Impossible è, appunto, un treno che semplicemente non si ferma; la sua carta d’identità è quella di un congegno che, in assenza di multiversi (improbabile che la temibile Entità apra a scenari multipli, nella seconda parte o in seguito), ritorna sui medesimi passi per cercare di ribadire una sua diversità e supremazia, una sua alterità costitutiva rispetto al nuovo immaginario (più o meno) digitale: avere come villain un IA è in fondo un tratto rivelatore, al netto delle discussioni sulla persistenza dell’analogico che affligge troppe recensioni pubblicate. Solo che, come si diceva all’inizio, questa differenza ontologica non si scorge fin quasi alla fine. Tutto suona, fino a quell’ultimo lungo epilogo sul treno, come una complessa preparazione a cui si assiste più che altro come atto di fede nel demiurgo e produttore (mutaforma quanto il suo personaggio) Tom Cruise, sempre scattante anche se meno di un tempo.

La sospensione dell’incredulità è quindi soprattutto quella di fingere che un progetto fondato sugli stunt possa davvero reggere il colpo del dispiegamento contemporaneo di computer grafica, e magari vincere. Tutto questo si può facilmente scambiare per romanticismo e verosimilmente è all’origine di tanti giudizi positivi. Ma se c’è solo una grande macrosequenza d’azione in 160 minuti, allora ci vuole anche la sospensione del giudizio, se non altro in attesa della seconda parte, volendo benignamente considerare il dittico e non la singola prova. Ci proviamo, benché dicessimo di ragionare su ciò che c’è: in fondo abbiamo creduto cose ancor più peregrine. Attendiamo speranzosi.

voto_3

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.