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Il fallimento programmato di Fincher.

La cinefilia acceca. E può far male, lo sappiamo.

Era già accaduto con Mank, il film che precede questo The Killer, anche quello girato per (e prodotto da) Netflix. Era stato sufficiente a Fincher imbandire il pingue e variegato panorama di un mondo del cinema ormai perduto per convincere la critica, inclusa quella militante, della nobiltà del progetto: che suonava invero un po’ fine a se stesso, ammettiamolo. Qui, l’esatto contrario: la solita storia di un killer-filosofo prezzolato che fallisce la missione per la quale è stato assoldato ed è costretto a guardarsi dai suoi stessi mandanti. E tutti giù a lagnarsi di lesa maestà verso il cinema di Jean-Pierre Melville, a causa di uno script che secondo i detrattori pare concepito dall’AI, con i molti silenzi e le previste vendette che sarebbero intonati col bon ton della piattaforma di streaming e invasi dal product placement, senza un filo del rigore etico e del sentimento tragico di un film come Frank Costello faccia d’angelo.

Mettiamoci il cuore in pace, è un film di David Fincher a tutto sesto; lasciamo stare il maestro francese del polar e, vivaddio, John Woo. E il regista di Seven lo aveva già fatto, nel senso che con Millennium – Uomini che odiano le donne (2011) aveva reso irriconoscibile la propria firma pur mantenendo intatti il suo stile e la sua pennellata (in modo forse meno serafico e oliato, va ammesso, ma magari ricordo male e dovrei rivedere il film).

Stick to the plan. Anticipate, don’t improvise. Fight only the battle you’re paid to fight. Sono redundancies, ripetizioni, ma anche sovrabbondanze, esuberi: nella nuova opera dell’autore americano esplodono tutte le contraddizioni di un cinema contemporaneo che vuole pensarsi elevato secondo algoritmi, ma che non è padrone in realtà di nulla, se non della propria asfittica riconoscibilità industriale. Un cinema-prodotto che Fincher conosce al millimetro e accarezza mimeticamente, tendendolo verso il punto di ebollizione, nell’ironia contrappuntando – con le canzoni degli Smiths – la sua ingenua aspirazione all’arte. Niente va preso sul serio perché tutto è geometrico, niente c’è di umano, come nella sequenza montata alla perfezione della fuga del sicario per le vie parigine dopo il colpo fallito, tra auto della polizia che sfrecciano vicino allo scooter, provvidenziali cambi di direzione all’ultimo, scelte decisive fatte in una frazione di secondo. C’è tutta la maestria, e la sua negazione, in quel I don’t give a fuck che il killer si ripete poco prima dell’attimo fatale che cambia il corso della sua vita (e tanta coincidenza dovrebbe far capire qualcosa).

Anche l’insipido equilibrio del copione con i regolamenti di conti paradigmatici (l’avvocato corrotto, l’energumeno, la lady raffinata), i cliché di sceneggiatura sempre leggibili, la metronimica e vacua proporzione tra le parti sono segni di magistero senza possesso, come se la regia fosse presente, ma l’uomo dietro la macchina latitasse. The Killer è l’autosabotaggio giudizioso di Fincher, un atto di protesta e sovversione dentro il sistema pur assecondandone il tracciato, il percorso stabilito. La sua opera senza autore, il suo fallimento programmato. Uguale a quello di un omicida il quale, benché abbiano già fallito nell’assisterlo, si ripete didatticamente e talora invertendoli o modificandoli di segno (forbid empathy… trust no one), i mantra del self help, sottoprodotto dell’ansia odierna per la propria affermazione e unicità (gli esibitissimi cambi di identità del killer si accompagnano ad atteggiamenti e sembianze che non mutano mai, guarda il caso).

Altro che opera minore o inutile progetto su commissione: The Killer è invece una partitura compiuta e inscalfibile che nell’enigmatica nettezza sa come rivendicare il codice personale contro la disambiguazione spersonalizzante, il rischio del caos per cercare la libertà (emblematico il finale) avverso la proceduralizzazione dell’immaginario e della creatività. Sarà il caso di accorgersene e non dimenticarsene subito per passare beati e ignari ad altro, come facciamo sempre.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.