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THE WAILING

THE WAILING

The wailing foto3

Thriller pessimista, ambiguo e oscuro dal regista di The Chaser e The Yellow Sea.

Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho” (Luca 24,39)

Dopo il sorprendente debutto nel 2008 con il thriller The Chaser, divenuto un film di culto per tutti gli appassionati del genere e applaudito alla sessantunesima edizione del Festival di Cannes, e dopo aver confermato di possedere un estro fuori dal comune con The Yellow Sea, il suo secondo – stratificato e ambizioso – lungometraggio uscito nel 2010, Na Hong-jin torna finalmente alla ribalta con The Wailing, rompendo un silenzio artistico durato ben sei anni.
La tranquillità di un piccolo villaggio di montagna sudcoreano viene bruscamente interrotta da una serie di inspiegabili ed efferati delitti commessi da alcuni membri della comunità che sembrano aver contratto una strana infezione. Due poliziotti del luogo, goffi e maldestri, iniziano a indagare scoprendo che l’epidemia, capace di trasformare le persone in folli omicidi, ha avuto inizio con l’arrivo in paese di un forestiero, un enigmatico giapponese spuntato dal nulla che nessuno ha mai visto prima. È l’inizio di un incubo senza fine.
Presentato Fuori Concorso all’ultima edizione del festival di Cannes, The Wailing è un thriller pessimista, ambiguo e oscuro che sconfina nell’horror puro e si apre a molteplici interpretazioni e a diverse chiavi di lettura. Na Hong-jin, non solo regista ma anche autore del soggetto e della sceneggiatura, sembra divertirsi a disattendere le aspettative del pubblico, giocando al rialzo e ribaltando più volte i ruoli dei suoi personaggi. Il talentuoso cineasta sudcoreano non teme di confrontarsi con gli archetipi del cinema horror, si arrischia sui territori impervi, scivolosi e abusatissimi della possessione demoniaca contaminandola e innervandola con usi e costumi orientali. L’incredibile furore e l’impressionante potenza visiva sprigionata dalla sequenza del (doppio) rito sciamanico spinto al limite, all’esasperazione, lascia senza fiato e rappresenta un vero e proprio tour de force per lo spettatore. L’atmosfera è plumbea e inquietante, alleggerita nella prima parte da improvvisi squarci d’ironia, il perturbante si annida ovunque, anche nei dettagli più piccoli e (all’apparenza) insignificanti. Il crescendo narrativo, sapiente e inesorabile, e la progressione drammatica turbano il pubblico e soprattutto lo spiazzano continuamente, mettendolo a disagio e privandolo di punti di riferimento a cui aggrapparsi. L’indecifrabile giapponese è un uomo in carne ed ossa o un fantasma, è una vittima o un carnefice, un demone assetato di sangue o uno sciamano, è capitato nel posto sbagliato al momento sbagliato o ha un ruolo chiave nel precipitare degli eventi? Senza spoilerare possiamo comunque affermare che si arriva ai titoli di coda con più di un quesito irrisolto e con vari punti interrogativi che ci costringeranno a riflettere a lungo a visione ultimata. Complice un epilogo non conciliatorio, sibillino e complesso dove irrompono temi tipici della tradizione cattolica (il gallo che canta tre volte) come il libero arbitrio, secondo cui ogni individuo è libero di scegliere tra il Bene e il Male, nonostante sulla scena faccia capolino una (potenziale e misteriosa) figura salvifica.
Le albe e i tramonti del suggestivo paesaggio di montagna fanno da contrasto, con la loro bellezza e purezza, ai terribili e orrendi accadimenti che sconquassano il villaggio, messi in scena con una carica grandguignolesca che sembra presa a prestito da un film di zombi di George Romero. È interessante notare come al centro della vicenda resti sempre l’uomo, nella figura dell’impacciato poliziotto interpretato da Do Won Kwak, protagonista di un incalzante e intenso melodramma familiare che fornisce nuovi interrogativi e quesiti: dove siamo disposti a spingerci per salvare e preservare la nostra famiglia, siamo pronti a farci tentare dal male abboccando al suo amo seducente e mortale?
Na Hong-jin realizza e assembla un’opera lucida e spietata, anomala e bizzarra, ricca di colpi di scena, unica nel suo genere o meglio nella sua sperimentazione dei generi più diversi e disparati, che osa tantissimo prendendosi rischi non da poco, ma riuscendo in modo quasi miracoloso a rimanere tesa fino all’amaro, nerissimo e disperato epilogo.

voto_5

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.