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Un film a più livelli che risistema il MCU.

Recensire un film dei MCU inizia a diventare un problema: perché ormai sono prodotti talmente bigger than life, kolossal talmente colossali, da intersecare e intercettare suggestioni, pubblici, derivazioni e immaginari tra i più svariati; ma non solo. Come declamato con il successo storico di Avengers: Infinity War (il sequel, Avengers: Endgame, sarà in sala a poco più di trenta giorni da questo Captain Marvel, di cui è ufficialmente il prologo, spiegheremo dopo in che senso), il franchise Marvel, oltre ad essere una fonte pressocché inesauribile di soldi, ha un grandissimi merito di cui forse in pochi si sono accorti ma che noi abbiamo sottolineato, ovvero quello di aver riportato i film in sala, anzi la fruizione dei film in sala a un suo status originario che si era andato perdendo per strada, ovvero quello del rito collettivo.

Proprio questo essere “rito collettivo” investe ogni uscita MCU, intasando le opinioni sui film singoli; è per questo che Captain Marvel cammina su un tappeto fatto di constatazioni: su come sia l’ingresso narrativo appunto di Endgame, su come abbia saputo o voluto riprodurre gli Skrull, personaggi amati/odiati dal fandom più duro e puro, su come abbia utilizzato e cavalcato la notizia della fusione Fox/Disney, una delle più gigantesche della storia dell’entertainment, e via discorrendo. Dimenticando in questo modo le sue componenti essenziali: ovvero come sia, come e più di Wonder Woman, il primo film significativo a mettere al centro e nel titolo una donna, e non propriamente ed inutilmente un film femminista.

Oltretutto, il film è proprio nel mezzo di un crocevia d’immaginari e franchise: ormai uno dei marchi distintivi dei film Marvel è proprio quel cavalcare generi e toni, rinfrescando ammodernando rileggendo stili e stilemi della storia del cinema. La prima mezz’ora di Captain Marvel è allora sci-fi anni ’70, mentre sembra quasi sentire echeggiare la voce e la regia di Terrore Nello Spazio di Mario Bava tra quelle rocce in cartapesta e quegli scenari deliziosamente retrò. Un mood che non si ferma ad una similitudine scenografica, ma investe proprio il cuore del film, un’appassionata dichiarazione al genere e una straordinaria lezioni di ritmo action. Ma Captain Marvel è pienamente un film Marvel per la sua propensione ad inondare il racconto di riferimenti alla cultura pop tale da fare di tutta l’opera un mosaico di modernissimo antiquariato: c’è Top Gun, c’è Point Break, ma ci sono anche i Blockbuster, i Nirvana, gli anni ’90 – che ora sono i nuovi ’80 -, Generazione X. Ma su tutto c’è lei, Carol Denvers. Con una regia che non utilizza lo sguardo femminile per una questione puramente formale (anche se, Kathryn Bigelow lo insegna, l’action delle donne ha un senso in più) come nel delirante e citato Wonder Woman: qui c’è un personaggio che addirittura nei fumetti, suo luogo d’origine, è sempre risultato o sfuocato o fuori forma, senza un indirizzo preciso e senza un’identità convincente, mentre nel suo primo film stand alone si dimostra preciso e tridimensionale con una sola frase, “non devo dimostrarti nulla!”, che abbatte ogni retorica sul “rialzarsi sempre” rendendola credibile, e avvicinandosi persino ad un target molto più giovane e attuale del solito.

In più, e per finire, dal punto di vista puramente narrativo Captain Marvel come dicevamo sopra raddrizza e quadra ogni informazione che nei primi anni del MCU ci era stata data e che adesso, alla soglia di un passaggio importante come Endgame, aveva bisogno di essere ri-sistemata in un sistema ordinato complesso. Risistema quindi tutto quello che sapevamo di Fury e dello SHIELD, del Cubo Cosmico e delle origini dei supereroi, addirittura, secondo voci sotterranee, getta le basi di una subdola retcon per preparare a sconvolgimenti futuri e da venire (per i più ferrati basta un titolo, Secret Invasion).

Alla fine, come per tanti altri titoli del listino, tante cose insieme in una sola opera che tiene il ritmo per ben due ore abbondanti: ce ne fossero, di mainstream così.

voto_4

 

Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.