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CODICE D’ONORE

CODICE D’ONORE

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La (retorica della) macchina hollywoodiana.

Perché scrivere di un film come Codice d’onore (A Few Good Men) per inaugurare una rubrica come “La rivincita del pubblico”? Perché è un film che, banalmente, ci è sempre piaciuto. Perché è un film hollywoodiano fino al midollo che all’epoca sbancò i botteghini incassando oltre duecento milioni di dollari in tutto il globo, e la critica magari non lo bistrattò, ma di certo non si genuflesse. Perché è impossibile resistere alla splendida faccia da schiaffi di Jack Nicholson nei panni del villain di turno. Perché nonostante sia cinema pregno della più discutibile retorica (civile), è un film che ci riempie sempre la pancia e gli occhi, e ci fa spegnere la tv o il pc soddisfatti dopo la visione.

Ma di che cosa è fatto esattamente Codice d’onore? Cosa c’è dentro che ce lo fa andar giù ogni volta così bene? Prima di tutto, c’è al timone uno dei registi che, almeno un tempo, sapeva muovere personaggi, raccontare storie, emozionarci, ovvero Rob Reiner (autore o mestierante? fate voi), capace di sfornare cult come Harry, ti presento Sally – tra le più belle rom-com di sempre – e una pellicola che ci fa scendere lacrime a fiumi ad ogni visione come Stand by Me, tra i più bei racconti di formazione della storia del cinema americano; tanto per citarne due che di certo non sono passati inosservati, sia agli occhi del pubblico che della critica. Una figura come Reiner che negli anni Ottanta e Novanta, prima della deriva geriatrica e dell’imbarazzante anonimato degli ultimi tempi, riusciva a passare con enorme disinvoltura da un genere all’altro, da un registro a un altro completamente diverso, come i grandi maestri e i bravi artigiani di una volta.

Inoltre, lo script di Aaron Sorkin – il suo primo – tratto da una sua pièce, non è poca cosa per tener viva l’attenzione e lasciarci incollati alla poltrona con la bava alla bocca, stuzzicandoci di sequenza in sequenza l’appetito per un sano (?) racconto hollywoodiano, che risulta a prova di bomba per quanto infarcito di bolso/furbo/facile impegno civile. L’infuocato materiale di Sorkin, ispirato a una storia vera, ha come centro drammaturgico la morte di Santiago, un fragile marine ritenuto “non conforme” al corpo, ucciso da due commilitoni, i quali tuttavia sostengono di aver solo eseguito un ordine dall’alto, di aver cioè applicato il cosiddetto “Codice Rosso”, una procedura violenta e intimidatoria, per niente ortodossa ma usualmente praticata dai marines “sottobanco”.

Codice d’onore forse ci piace anche perché è semplice, è tutto lì, non ci sono grandi sottotesti da sviscerare, è lineare, limpido, ed il tutto è servito attraverso un solidissimo impianto narrativo da legal thriller che più hollywoodiano non si potrebbe. Il film è serrato, accumula fatti e scambi dialettici fino ad esplodere con un canonico climax finale e una chiusa grondante retorica (antimilitarista?): non serve una mostrina per essere un uomo d’onore, dice l’avvocato al suo assistito dopo la lettura della sentenza che condanna il colonnello e – va da sé – tutto il corpo militare rappresentato da quest’ultimo, e forse l’America tutta.

Rivedendo Codice d’onore, ad ogni singola inquadratura, stacco, battuta, sono tangibili la messa in scena imponente e levigata da major, gli attori che dicono bene qualsiasi cosa esca loro di bocca e, di nuovo, l’abilità di un direttore d’attori come Reiner, che sa come far loro dire bene ogni cosa; in maniera a tratti troppo enfatica, sicuramente, ma nonostante la tronfia recitazione da Actors Studio è proprio avvincente questo film con lo sbarbatissimo e rampante Tom Cruise nei panni di un brillante avvocato militare che ha l’arduo compito di mettere all’angolo l’intoccabile alto ufficiale dei marines, bastardo e reazionario (oltre che gustosamente vanesio), interpretato da Jack Nicholson.
E ovviamente ci riuscirà, e così facendo trionferà la giustizia…
The End.

voto_3

Fabrizio Catalani
Ha fatto e fa cose che con il cinema non c'entrano nulla, pur avendo conosciuto, toccato con mano, quel mondo, e forse potrebbe incontrarlo di nuovo, chi lo sa. Potrebbe dirvi alcuni dei suoi autori preferiti, ma non lo fa, perché non saprebbe quali scegliere, e se lo facesse, cambierebbe idea il giorno dopo. Insomma, non sa che dire se non che il cinema è la sua malattia, la sua ossessione, e in fondo la sua cura. Tanto basta.