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Dunkirk foto epoca

La leggenda di Dunkirk.

Dunkerque (1), che cosa è (stata) Dunkerque alla fine? Lo spazio di una decisione imminente, del momento fatale che dona o sottrae significato a tutto ciò che è stato fatto, sperato, tentato, vissuto fino allora. Quell’istante della compiutezza che divide la sconfitta più umiliante e disperata dalla possibilità, lontanissima, di un salvataggio e di una rinascita. Ed è stata anche il tempo, il bisogno indefinito e sussurrato in un angolo del cuore di un miraggio: forse impossibile, impercettibile, irrazionale e irrealistico.

Fine maggio 1940, i primi mesi di una guerra che quasi nessuno in Occidente avrebbe voluto combattere (“Siamo sicuri che ne valga la pena, per Danzica e la Polonia?”) dopo l’immane strage del fronte franco-tedesco di vent’anni prima. Una guerra che inizia come nessuno dei comandanti alleati avrebbe potuto prevedere (2). Il Blitzkrieg, la guerra lampo sperimentata dagli strateghi della Wehrmacht attraverso la micidiale combinazione dei dirompenti panzer e della Luftwaffe, fa lo scacco matto al più forte e numeroso esercito del mondo, quello francese, nel volgere di un pugno di giorni. Una brillante manovra a tenaglia, sfondando nelle Ardenne, chiude in un cul-de-sac nell’Artois, all’estremo nord della Francia, il grosso delle truppe anglofrancesi. Persa Calais, sono costrette alla ritirata fino alla ridotta di Dunkerque, per tentare un quasi impossibile ritorno a casa via mare. L’esodo e l’odissea si danno appuntamento quassù, ai bordi della Manica.

La spiaggia di Dunkerque, una lingua di sabbia, un lembo (un limbo) di terra in cui acqua, aria e terra s’incontrano, al limitare di un’Europa che oltre (quel braccio di mare) non è già più Europa anche se ancora lo è. La battigia è il confine sul quale arriva maledetto anche il fuoco, trasportato dall’artiglieria tedesca e dalle bombe degli urlanti, spaventosi Stukas nelle loro fulminee picchiate di morte. E proprio in un punto dal quale si può quasi vedere la patria. Home. Quasi, allungando lo sguardo da quel molo che si protende tra le onde.

Dunkerque, un (non)luogo della mente in cui tutto è in gioco, tutta la vita e tutta la morte. E dove per chi attende la salvezza il tempo pare essersi arenato, come le imbarcazioni incagliate sul fondale troppo basso. Una settimana, un giorno, un’ora, sembrano sempre lo stesso tempo. O forse il tempo deraglia fuor di sesto, asincrono e scardinato, e per una volta non scorre inesorabile ma flessibile; gli eventi di un giorno si concentrano nello stesso bacino in cui alloggiano quelli di un’intera settimana, un’ora incede lentissima e spessa, spericolata e virale. Rallentata come nel tempo di un film, tutta l’esperienza della guerra che penetra nella mente e non la lascia più libera.

Dunkerque è un luogo mitologico. Il luogo di un prodigio senza l’ipoteca del soprannaturale. Un tabernacolo della (forza della) fede nell’uomo e nella giustizia di compiere un’azione solo e semplicemente perché va fatta, al di fuori dei calcoli pragmatici e probabilistici. Gli eroi sono dei sopravvissuti, niente di più, ma qualche volta e nella giusta prospettiva può bastare. Eccome. E se uno Spitfire riesce a planare intatto e lieve su una spiaggia interminabile, in un tempo sospeso e alterato e immaginario, è perché porta con sé il senso della “mission accomplished” e non c’è più altro da dire.

Dunkerque è uno spirito, è ineffabile. Il sacrificio è avvenuto. L’eroismo è il sentimento di non avere più altro di meglio da offrire e da chiedere al mondo, di essere fuori dal suo corso naturale. Null’altro che impegnare la propria forza fino allo stremo e infine abbandonarsi e bruciare, esausti, fino all’ultima cenere. O fino alla salvezza, se per un miracolo avvenisse.

Dunkirk è in fondo una leggenda, come quelle delle saghe anglosassoni: ma tra le storie vere che imperversano nel cinema di oggi non è, davvero, solo una leggenda.

 
(1) Uso il nome francese della città per distinguere la località dal titolo del film. E perché, nelle mie lunghe e reiterate letture di adolescente matto per le appassionanti vicende della Seconda Guerra Mondiale, si è sempre chiamata così.
(2) Parziale eccezione il generale De Gaulle che in Vers l’armée de métier, 1932, aveva teorizzato la necessità di costruire e utilizzare più carri armati per contrastare l’attacco quando i tedeschi lo avrebbero portato. Fu ignorato da quasi tutti.

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.