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Uno stetoscopio non basta.

La fedeltà al loro discorso autoriale sembra diventata per i fratelli Dardenne ancora più dogmatica che in passato. Come in Due giorni, una notte, la dottoressa protagonista di questo ultimo film prende a interrogare chi la circonda: nel film con Marion Cotillard era lo spettro del licenziamento a spingere l’operaia Sandra ad affrontare i suoi colleghi di lavoro, qui è il senso di colpa per l’omesso soccorso di una giovane poi ritrovata morta a far smettere a Jenny Davin l’atteggiamento da medico in carriera (decide di fermarsi nell’ambulatorio di periferia dopo il fatto, con ciò rinunciando a una promozione) e conoscere meglio coloro che la circondano. Cercare la verità presuppone insomma l’interrogazione della realtà, ricostruendo le sue sembianze un pezzo dopo l’altro. L’intento, morale come estetico, non potrebbe essere più chiaro. Ma non basta certo uno stetoscopio, come nell’allusiva e sottilmente ironica sequenza d’apertura, per diagnosticare esattamente il (un) male, tanto più che la scena successiva mostra quella che ha tutta l’aria di una crisi epilettica (che invece tale non è, come si scoprirà in seguito).

Come sovente avviene nelle opere dei due fratelli belgi, il personaggio principale è stretto tra un vivo bisogno interiore (talvolta una vera e propria etica, talvolta una reazione quasi pavloviana agli avvenimenti) e un ambiente circostante che lo provoca all’azione, spingendolo a rivelare il suo carattere più intimo: la macchina da presa, che è l’ombra del personaggio, fa il resto, e senza compromessi spettacolari lo rende un “eroe”. Il procedimento, se tale si può definire, è in atto anche in La fille inconnue, ma a differenza che nel magistrale film precedente manca forse un po’ di lavoro sulla figura della protagonista. C’è da dire che i Dardenne, che lavorano come sempre su soggetto e sceneggiatura propri e collaborano con l’abituale pool d’attori (Jérémie Renier, Fabrizio Rongione, Olivier Gourmet), avevano probabilmente pensato di togliere di mezzo ogni riferimento alla vita personale della giovane dottoressa per rendere più essenziale la vicenda e concentrare sul suo dramma privato tutta l’attenzione dello spettatore, confidando inoltre nella “letteralità” della professione della ragazza (un medico per l’appunto generico e quindi in un certo senso anonimo e comune). Questo ha però l’effetto non previsto né voluto di drammatizzare oltre misura gli incontri di Jenny con i pazienti e le persone che possono offrirle informazioni per scoprire qualcosa di più sull’identità della morta. Da un lato la tenacia un po’ da santa della protagonista, dall’altro gli abitanti della periferia diffusa di Liegi (ma il film è ambientato a Seraing) restii ad uscire dalla loro ritrosia e paura di essere coinvolti, che però alla fine cedono alla determinazione della loro interlocutrice. Come molti hanno notato, il clima che si instaura tra le parti è quello della confessione, ma a un certo punto tutto dà la sensazione di essere troppo esemplare e “matematico”, senza che possa spirare un briciolo della tensione morale di certi film di Rossellini e di Bresson. Il microcosmo che circonda la dottoressa finisce per farsi più romanzesco del desiderato, e questo è sufficiente a rendere la ricerca della verità leggermente artificiale, come se il teatro prendesse in certi momenti il sopravvento sul cinema, sia pure un cinema vérité in senso lato come quello dei Dardenne.

Il progetto autoriale della coppia di registi non esce certo ridimensionato o incrinato da questi rilievi e dalla riuscita più modesta del consueto di un loro film: è però significativo che basti un piccolo spostamento dell’asse o una trascuratezza di scrittura per mettere sabbia negli ingranaggi di un cinema tanto rigoroso e attento ai minimi dettagli, che rimane una delle più importanti manifestazioni del cinema d’essai del nostro secolo.

voto_3

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.