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Pinocchio foto2

Un’occasione sprecata.

Eh beh, almeno ci ha provato: e non sempre si può vincere, direbbe qualcuno. Il coraggio certo non manca a Matteo Garrone, autore dei più importanti e regista gigantesco di alcuni tra i film più belli degli ultimi anni: e lo ha dimostrato più di una volta, fino alla ferma volontà di portare sullo schermo Pinocchio, la favola di Collodi che è costata la carriera a diversi registi che hanno provato a tradurre in immagini una delle storie che è stata riprodotta e declinata innumerevoli volte.

Certo, il risultato non è stato disastroso come in altre occasioni: ma con il suo Pinocchio, progetto che accarezzava da diversi anni, Garrone non è riuscito a toccare le vette altissime degli altri suoi capolavori. L’aspettativa, al cinema, conta molto, va detto: e dopo una doppietta come Dogman e Il Racconto Dei Racconti era più che lecito attendere al varco l’autore. Che riscrive la storia in maniera quasi calligrafica, aiutato dalla circostanza per cui il mondo del burattino di legno era già vicinissimo al suo, tutto costruito intorno a quella vita di periferia legnosa e povera, che si muove tra personaggi antropomorfi e un realismo magico stupefatto e stupefacente. Eppure il Pinocchio di Garrone avrebbe dovuto essere rivoluzionario, almeno nelle intenzioni: peccato (o forse no) che rivoluzionario lo sia solo all’interno del cosmo produttivo italiano, perché in quest’ottica sì che questo Pinocchio è un oggetto alieno, indisturbato, quasi unico con la sua grandeur visiva, produzione enorme per messa in scena che comunque poi, narrativamente, ritorna alle origini della fiaba, riportando il personaggio ad un livello basico lontanissimo dalle versioni più disparate a cui così tante trasposizioni ci hanno abituato.

Un giro di parole per evitare di dire che il Pinocchio di Garrone, in qualche modo, lascia il critico più agguerrito con l’amaro in bocca: strabiliante per la sua potenza onirica, il racconto sembra non decollare mai né a livello emotivo né, tantomeno, su quello delle potenzialità. Si diceva prima della vicinanza tra Collodi e Garrone: un mondo, quello di entrambi, basato sull’antimodernismo di una cultura contadino-favolistica, dove ogni uomo è un animale e ogni animale è un uomo, dove gli istinti e i desideri sono azzerati e ridimensionati alle loro origini quasi ferine, senza dimenticare le fessure dalle quali si intravedono le molteplici possibilità interpretative. Oltretutto, il tono grottesco ben caro a Garrone si sposa alla perfezione con la storia raccontata: così come l’ombra che avvolge ogni immagine è pienamente in linea con le turbolente inquietudini di Collodi. Eppure proprio da qui nasce quel sentimento di delusione: perché se Pinocchio è così vicino, così plasticamente adatto ad essere declinato come favola dark, è un peccato che il regista non abbia premuto l’acceleratore su alcuni aspetti, non abbia approfondito alcune sequenze, non abbia insomma reso il mondo di Pinocchio quello che già era pronto ad essere.

I draghi immoti di Dogman; le bestie acquatiche de Il Racconto Dei Racconti; le perturbanti anomalie fisiche de L’Imbalsamatore; erano tutti pronti ad entrare nel mondo della Fata Turchina e del Gatto e la Volpe, pronti a sposarsi con quella meraviglia attonita con cui il cinema di Garrone riesce a vestire ogni suggerimento quotidiano, intrecciandosi con un senso della scena superbo e forte di una carica poetica pronta a sedurre lo spettatore. Invece nel prodotto finito sembra che tutto stia lì, in scena, per compiacersi di se stesso, senza una vera spinta emotiva, una raffinata artigianalità fatta e finita che non diventa mai orrore o spavento, emozione o pianto. Gli interpreti sono straordinari (Ceccherini, anche coautore, è una Volpe laida e infida come poche altre; Mangiafuoco perfetto, il Pinocchio stesso con Ielapi prende realmente vita), le scene sembrano quadri grazie alla fotografia pittorica di Nicolaj Buel: eppure tutto finisce lì, sullo schermo, non si sedimenta nel profondo e non entra nel reale vissuto dello spettatore che si smarrisce nelle infinite svolte della trama, nei quadri che si rincorrono uno dopo l’altro, a volte senza soluzione di continuità, nella soverchiante forza onirica che non si traduce mai in uno slancio personale.

Lasciando con più interrogativi. Ad esempio, fino a che punto questo Pinocchio è davvero il Pinocchio che voleva Matteo Garrone? Le musiche ammiccanti di Dario Marianelli, fatte di pianoforte e fiati che riportano alle melodie dell’inarrivabile Pinocchio di Comencini, sembrano strizzare un po’ troppo l’occhio al pubblico che si vuole portare in sala, un pubblico che forse doveva essere il più largo possibile e che probabilmente gli eccessi dark di Garrone avrebbero tenuto lontano.

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Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.